9 Febbraio 2018
Per il futuro, i dipendenti che segnaleranno condotte illecite di propri colleghi o superiori potranno farlo con maggiore libertà e senza temere ritorsioni.
È questo l’obiettivo (auspicato) della nuova legge (l. 179/2017) entrata in vigore proprio negli ultimi giorni dello scorso anno, recante “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”.
La legge in questione si rivolge ai dipendenti pubblici, ma anche a quelli privati, talvolta peraltro con alcune commistioni di difficile interpretazione.
Per quanto attiene ai pubblici dipendenti, l’art. 1 della legge in esame dispone una integrazione del Testo unico sul pubblico impiego (d.lgs. 165/01), prevedendo che il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala ad alcuni soggetti determinati (vale a dire il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, ovvero all’ANAC, o ancora all’autorità giudiziaria o contabile) condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o in altro modo sottoposto a provvedimenti ritorsivi in conseguenza della segnalazione effettuata.
Tale disposizione si applica, per espressa previsione normativa, non solo a tutti i pubblici dipendenti, bensì anche “ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica”, con locuzione che lascia qualche perplessità in ordine all’effettiva ampiezza del campo di applicazione della norma che, letta estensivamente, si presterebbe ad essere interpretata nel senso dell’assoggettamento ad essa di tutti i dipendenti – nonché i lavoratori autonomi (!) – di imprese che svolgano a qualunque titolo (convenzionamento, appalto, ecc.) attività per la P.A. (pubblica amministrazione).
Tale interpretazione – ove pure si ritenesse aderente con la finalità che la ispira, vale a dire salvaguardare tutti i lavoratori che effettuano segnalazioni in ordine a malversazioni, corruzioni ed altri illeciti in danno della P.A. – appare tuttavia difficilmente compatibile, quantomeno per i lavoratori autonomi, con la tutela reintegratoria prevista dalla legge.
Proseguendo nell’analisi del testo, si rileva come il legislatore sia intervenuto incisivamente anche sull’anonimato che deve essere garantito al segnalante, la cui identità non può essere rivelata ed anzi, nel procedimento penale, è coperta dal segreto istruttorio ai sensi dell’art. 329 c.p.p. e, analogamente, nel giudizio contabile è mantenuta segreta sino al termine della fase istruttoria. Nel procedimento disciplinare, poi, l’identità del segnalante deve restare riservata ove la contestazione dell’addebito sia fondata su accertamenti distinti ed ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa, mentre “qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità”.
Interpretando letteralmente la disposizione di cui sopra, pertanto, sembrerebbe che in assenza di consenso, l’amministrazione dovrebbe esimersi dal procedere disciplinarmente nei confronti del soggetto segnalato, con previsione che desta più di qualche perplessità in quanto potenzialmente idonea a lasciare impuniti – a tutela della riservatezza del segnalante – anche illeciti rilevanti, con buona pace di ogni principio di buon andamento (peraltro di rango costituzionale) della P.A.
A chiudere il cerchio sulla tutela della riservatezza del segnalante, si pone poi la disposta sottrazione della segnalazione al diritto di accesso ai documenti amministrativi, con previsione tuttavia che difficilmente sembra possa estendersi al settore privato.
Si diceva che il segnalante non può essere destinatario di provvedimenti ritorsivi in ragione della sua segnalazione. A tale proposito, la legge in commento afferma testualmente che è a carico dell’amministrazione “dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa”, salvo poi precisare che “gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall’amministrazione o dall’ente sono nulli”.
Ebbene, al proposito – al netto di una formulazione tecnicamente piuttosto incerta, per non dire quasi contraddittoria – è evidente la finalità che ha ispirato il legislatore, vale a dire quella di tenere indenne il lavoratore segnalante da qualsiasi pregiudizio conseguente alla sua segnalazione.
Lascia, invece, piuttosto perplessi la previsione normativa circa la disposta applicazione della tutela reintegratoria accordata dal cd. “jobs act” in favore del lavoratore ritorsivamente licenziato a motivo della sua denuncia, se non altro in quanto la giurisprudenza, come pure diversi provvedimenti dell’Esecutivo avevano recentemente escluso tale disciplina nei confronti dei dipendenti pubblici.
A fare da contraltare alle ampie tutele sinora esaminate, si pone infine la previsione a mente della quale – in caso di condanna penale, anche non definitiva, del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione in relazione a quanto denunciato ovvero quando sia accertata civilmente, anche solo in primo grado, la sua responsabilità civile per dolo o colpa grave – vengono meno le tutele accordategli.
Per quanto attiene all’impiego privato, la legge in commento integra la previsione di cui al d. lgs. 231/01 (in materia di disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche), disponendo che i modelli organizzativi previsti da tale normativa debbano prevedere:
– dei canali che consentano agli amministratori, ai dirigenti ed ai dipendenti di presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, “segnalazioni circostanziate di condotte illecite…fondate su elementi di fatto precisi e concordanti…”;
– i canali di cui sopra devono garantire la riservatezza dell’identità del segnalante;
– il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione;
– la previsione, all’interno del regolamento disciplinare previsto dal modello organizzativo, di sanzioni nei confronti di chi viola le misure a tutela del segnalante, come pure nei confronti di chi effettua segnalazioni infondate.
A tale ultimo proposito, l’adozione di misure discriminatorie nei confronti del segnalante possono essere denunciate all’Ispettorato del lavoro non solo dal segnalante medesimo, bensì anche dall’organizzazione sindacale da lui indicata.
Inoltre, è nullo il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del segnalante. Del pari nulla è la variazione delle mansioni, come pure qualunque altra misura ritorsiva o discriminatoria in danno di costui. Analogamente a quanto previsto per i dipendenti pubblici – ma con terminologia certamente più corretta – il legislatore ha posto in capo al datore di lavoro l’onere, nel relativo giudizio, di dimostrare l’estraneità alla segnalazione di qualsiasi misura adottata nei confronti del segnalante successivamente alla segnalazione e che determini per lui effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro.
Infine, allo scopo di non frustrare la ratio che ispira la normativa in esame, l’art. 3 dispone espressamente che il segreto d’ufficio, il segreto professionale e il segreto industriale cedono di fronte alla finalità della legge, vale a dire il perseguimento dell’interesse all’integrità delle amministrazioni pubbliche private e la repressione delle malversazioni, con la conseguenza che non può essere punito il segnalante che riveli tali segreti, semprechè tuttavia la segnalazione avvenga nel rispetto dei modi previsti dalla legge e con espressa esclusione di chi sia venuto a conoscenza della notizia in ragione di un rapporto di consulenza professionale o di assistenza con l’ente, l’impresa o la persona fisica interessata.
In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto – pur convenendo sull’importanza delle finalità che hanno mosso il legislatore – non si può tuttavia mancare di rilevare che ad oggi la disciplina in commento è applicabile al settore privato nei soli limiti in cui le aziende abbiano dato attuazione al d. lgs. 231/01 ed ai modelli organizzativi, non obbligatori, ivi previsti; inoltre, non si possono neppure nascondere alcune significative difficoltà interpretative, legate ad una terminologia talvolta generica ed impropria, che si auspica vengano al più presto superate, al fine di dare attuazione in modo certo ed efficace a tale importante novità legislativa.