25 Ottobre 2013
Come noto, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore ha l’onere di provare, non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa ma anche di aver prospettato, o comunque verificato, la possibilità di un reimpiego del lavoratore (con esclusione della sua riqualificazione, cfr. Cass. civ., sez. lav., 11 marzo 2013, n. 5963) in mansioni equivalenti o finanche inferiori, al fine di evitare la risoluzione del rapporto di lavoro, fermo restando l’onere del lavoratore di indicare puntualmente le posizioni lavorative vacanti dove avrebbe potuto essere riutilizzato (ex multis: Cass. civ., sez. lav., 21 marzo 2003, n. 4187; Cass. civ., sez. lav., 8 febbraio 2011, n. 3040).
In altri termini, il datore di lavoro deve fornire nell’ambito dell’eventuale giudizio la prova di aver assolto al c.d. obbligo di repechage.
Nella vigenza dell’art. 18, l. n. 300/70, vecchia formulazione (ovviamente per le imprese cui si applica la tutela reale), la violazione del suddetto obbligo avrebbe comportato la reintegra del lavoratore.
A seguito delle modifiche normative apportate all’art. 18, l. n. 300/70 dalla l. n. 92/12 (meglio nota come “riforma Fornero”), si sono posti sul punto alcuni dubbi interpretativi, ovverosia se la violazione dell’obbligo di repechage non dovesse farsi rientrare nelle “altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo” (art. 18, comma 7), per le quali è prevista l’applicazione dell’art. 18, comma 5, ovverosia la risoluzione del rapporto di lavoro con la sola corresponsione di un’indennità risarcitoria da 12 a 24 mensilità.
Per mera chiarezza di riferimento, si rammenta che ai sensi dell’art. 18, comma 7, il Giudice procede alla reintegra del lavoratore nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi, invece, applica la disciplina di cui all’art. 18, comma 5, secondo cui il Giudice, pur accertando profili di illegittimità del licenziamento, dichiara comunque risolto il rapporto di lavoro e si limita a condannare il datore al risarcimento del danno (appunto, dalle 12 alle 24 mensilità), tenendo conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti nonché delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione.
Sul suddetto tema si sono avute le prime pronunce della giurisprudenza di merito, in particolare del Tribunale di Milano (ordinanza del 28 novembre 2012), del Tribunale di Roma (ordinanza dell’8 agosto 2013) e del Tribunale di Varese (ordinanza del 4 settembre 2013), secondo cui la violazione dell’obbligo di repechage non comporta la reintegra del lavoratore, ma la conseguenza è solo un’indennità risarcitoria purchè si accerti, nel corso del giudizio, che la soppressione del posto di lavoro è stata effettiva e non fittizia.
Nelle suddette ordinanze si specifica, difatti, che il fatto del quale valutare la sussistenza è soltanto il venir meno della posizione lavorativa, mentre l’obbligo di verificare se esiste o meno una possibilità di ricollocazione rappresenta una mera conseguenza del fatto, alla quale, tuttavia, il datore di lavoro è tenuto al fine di non incorrere nella condanna sebbene, come appena riferito, di natura esclusivamente economica.