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Videosorveglianza: il consenso scritto dei lavoratori non basta

18 Febbraio 2020

Con la recente sentenza n. 1733 del 17 gennaio 2020, la Corte di Cassazione ha nuovamente chiarito che il consenso del lavoratore, in qualsiasi forma prestato, non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato un’apparecchiatura di videosorveglianza in violazione delle prescrizioni previste dall’art. 4, L. n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori).

Nella fattispecie, infatti, un datore di lavoro, titolare di un negozio, aveva provveduto all’installazione di un sistema di videosorveglianza (potenzialmente in grado di controllare a distanza l’attività dei lavoratori), in assenza dell’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o del provvedimento autorizzativo dell’ITL, previa autorizzazione rilasciata per iscritto da parte dei dipendenti; a fronte di ciò il Tribunale lo dichiarava colpevole della contravvenzione di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori e lo condannava al pagamento di un’ammenda pari a tremila euro.

Il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione, lamentando che il Tribunale si fosse limitato ad una formale ed astratta affermazione di principi giurisprudenziali, senza, tuttavia, esaminare la vicenda concreta e, nello specifico, l’accordo formale sottoscritto tra ricorrente e dipendenti.

La Suprema Corte, a fronte di tale doglianza, ha confermato quanto già indicato dal Giudice di prime cure, ritenendo che l’accordo sindacale o il provvedimento da parte dell’autorità amministrativa rappresentano una procedura inderogabile che non può, in alcun caso, essere sostituita dall’autorizzazione scritta dei dipendenti interessati.

Tale procedura, secondo gli Ermellini, trova la sua ratio nella considerazione dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro subordinato, a fronte della maggiore forza economico-sociale dell’imprenditore.

Tale approdo giurisprudenziale si pone in contrasto con quanto in precedenza indicato dalla medesima Corte con sentenza n. 22611 del 17 aprile 2012, che – sul punto – aveva ritenuto non sussistente il reato previsto dagli artt. 4, comma 2, e 38 dello Statuto dei lavoratori, in quanto era stato acquisito l’assenso di tutti i dipendenti attraverso la sottoscrizione di un documento esplicito.

Secondo tale precedente giurisprudenziale, infatti, l’esistenza di un consenso validamente prestato da parte del titolare del bene protetto, escludeva l’integrazione dell’illecito.

Tali principi, tuttavia, non risultano oramai condivisi dalla giurisprudenza che ritiene tale via non percorribile in ragione della sproporzione esistente tra le rispettive posizioni di lavoratore e datore di lavoro.

Secondo la Corte infatti, così facendo, basterebbe al datore di lavoro fare firmare a dipendenti, all’atto dell’assunzione, “una dichiarazione con cui accettano l’introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso viziato, perché ritenuto dal lavoratore stesso, a torto o a ragione, in qualche modo condizionante l’assunzione”.

In ragione delle considerazioni che precedono, la Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo che il consenso del lavoratore all’installazione di un’apparecchiatura di videosorveglianza non è sufficiente a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice.

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