13 Settembre 2013
Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 12722 del 23 maggio 2013) torna a pronunciarsi su un tema di sempre più stringente attualità, in una fase – come quella odierna – in cui spesso le organizzazioni sindacali vengono chiamate a sottoscrivere intese che comportano sacrifici e, pertanto, risultano indigeste ad alcuni se non alla maggioranza dei lavoratori.
In tali casi, ci si chiede che effetto abbia l’accordo sindacale sottoscritto non solo nei confronti del lavoratore aderente all’organizzazione sindacale firmataria, ma anche nei confronti del lavoratore aderente ad altra organizzazione sindacale non firmataria o, ancora, nei confronti del lavoratore non iscritto ad alcun sindacato.
La sentenza in esame prende spunto dal ricorso giudiziario promosso da alcuni lavoratori di una struttura ospedaliera privata romana (associata all’ARIS) per ottenere la corresponsione del premio di presenza computato su 26 giorni mensili a decorrere dal marzo 1995, data dalla quale esso non era stato più erogato per effetto della disdetta da parte datoriale dell’accordo del 1984 che l’aveva istituito.
In entrambi i gradi di giudizio di merito, il ricorso veniva rigettato sul presupposto che ogni questione relativa al premio di presenza era stata regolarmente definita attraverso un accordo sindacale aziendale transattivo del 1999, con il quale le parti (OO.SS. da un lato e datore di lavoro dall’altro) avevano quantificato in misura fissa (lire 720.000) l’erogazione relativa al premio di presenza, con rinuncia ad ogni ulteriore pretesa in merito, somma peraltro anche effettivamente percepita dai ricorrenti.
Ricorrevano, pertanto, per la cassazione della sentenza resa i lavoratori, evidenziando l’illegittimità dell’accordo sindacale transattivo, al quale in ogni caso essi erano rimasti estranei ed anzi dal quale dissentivano apertamente.
La Suprema Corte – dopo aver ribadito la legittimità dell’accordo sindacale transattivo sottoscritto tra le parti, rilevando pure come esso non fosse neppure stato oggetto di impugnativa nei termini di cui all’art. 2113 c.c. – ribadisce la propria più recente giurisprudenza, da ritenersi tuttavia già consolidata, a mente della quale i contratti collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l’unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad un’organizzazione sindacale diversa, ne condividono l’esplicito dissenso e potrebbero addirittura essere vincolati da un accordo sindacale separato.
Per i supremi giudici – che superano ancora una volta e definitivamente il precedente orientamento che limitava l’efficacia degli accordi sindacali ai soli lavoratori iscritti secondo i principi privatistici del mandato – infatti, la tutela di interessi collettivi della comunità di lavoro aziendale e, talora, l’inscindibilità della disciplina che ne risulta, concorrono a giustificare l’efficacia soggettiva “erga omnes” dei contratti collettivi aziendali, cioè nei confronti di tutti i lavoratori dell’azienda, anche se non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti.
L’esigenza di salvaguardare l’adozione di una disciplina uniforme sul luogo di lavoro, pertanto, prevale su quella del lavoratore di esprimere il proprio dissenso, che viene in evidenza solo allorquando esso sia espressione del più ampio dissenso espresso dalla sigla sindacale cui il medesimo appartiene e che, in quanto manifestazione dell’interesse di una moltitudine di lavoratori, consente agli iscritti di quel sindacato di sottrarsi all’accordo stipulato dal datore di lavoro con altre sigle sindacali.