22 Febbraio 2019
L’avvio di un procedimento penale nei confronti di un proprio dipendente è questione complessa da gestire per il datore di lavoro, che spesso non conosce i fatti che hanno dato luogo al procedimento medesimo e che, quasi sempre, deve fare i conti con la reticenza del lavoratore che omette di fornire ogni informazione in proposito.
In disparte i profili delle conseguenze della carcerazione del dipendente e dell’incidenza che condotte extra lavorative possano avere sul rapporto di lavoro, in questa sede si vuole viceversa esaminare l’aspetto relativo alla possibilità per il datore di lavoro di legittimamente utilizzare, in sede disciplinare, gli atti del procedimento penale di cui venga lecitamente a conoscenza.
È, infatti, opinione diffusa quella a mente della quale il datore di lavoro non può utilizzare gli atti del procedimento penale – attesa la loro segretezza, prevista dalla legge quantomeno sino all’esercizio dell’azione penale da parte dell’Autorità inquirente, vale a dire sino alla richiesta di rinvio a giudizio dell’indagato, che con tale atto assume la qualità di imputato – con la conseguenza che di sovente egli resta inerte sino alla definizione del giudizio in sede penale, che molto spesso richiede anni, sempreché nel frattempo il giudizio non si estingua per prescrizione.
Ebbene, a fare chiarezza sul punto, è intervenuta una recentissima pronuncia della Suprema Corte (ord. n. 2436/19).
Nel caso di specie, una lavoratrice – dopo essere stata attinta da una misura cautelare disposta dall’Autorità Giudiziaria – era stata destinataria di una missiva di addebito disciplinare, in cui il proprio datore di lavoro, rinviando all’atto applicativo della misura cautelare, contenente altresì le risultanze di alcuni atti di indagine svolti (acquisizione di sommarie informazioni, trascrizioni di intercettazioni ambientali, ecc.), le contestava la condotta delittuosa per la quale era sottoposta a procedimento penale.
La lavoratrice contestava la legittimità dell’operato datoriale, evidenziando l’illegittimo uso di atti che per previsione di legge dovevano restare segreti sino al suo rinvio a giudizio, che – al momento della contestazione disciplinare – non era ancora stato disposto e la loro inidoneità a fornire ogni prova in merito alle conclusioni formulate dall’Autorità inquirente.
La questione approda alla Suprema Corte, la quale respinge le doglianze della ricorrente.
Gli Ermellini, per quanto di interesse in questa sede, rilevano preliminarmente che – al momento della contestazione disciplinare – la lavoratrice aveva già avuto conoscenza degli atti di indagine richiamati dal datore di lavoro, che le erano stati comunicati all’atto della notifica della misura cautelare disposta nei suoi confronti.
I Supremi Giudici, inoltre, evidenziano che in ogni caso è legittimo l’uso da parte del giudice del lavoro di prove atipiche (quali le intercettazioni ambientali contenute negli atti del procedimento penale), richiamando altresì la propria giurisprudenza, a mente della quale “il giudice del lavoro, ai fini della formazione del proprio convincimento in ordine alla sussistenza di una giusta causa di licenziamento, può valutare gli atti delle indagini preliminari e le intercettazioni telefoniche ivi assunte, anche ove sia mancato il vaglio critico del dibattimento, in quanto la parte può sempre contestare nel giudizio civile i fatti acquisiti in un procedimento penale” (Cass. 5317/2017).
In buona sostanza, dunque, secondo la Suprema Corte, il giudice può valutare gli atti di indagine eseguiti in sede penale – siano essi verbali di sommarie informazioni testimoniali, brogliacci di intercettazioni telefoniche e/o ambientali, ecc. – indipendentemente dal fatto che essi siano stati già confermati in sede dibattimentale nel corso del processo penale, atteso che comunque essi potranno essere valutati dal giudice nell’ambito del giudizio in cui sono stati introdotti, con ogni possibilità per il soggetto contro il quale sono fatti valere di controdedurre in merito.
Alla luce di quanto sopra, pertanto, appare evidente che i timori datoriali di cui si è detto in premessa non appaiono fondati, ben potendo il datore di lavoro – che sia legittimamente entrato in possesso di atti di indagine del procedimento penale – utilizzarli nel rispetto delle norme vigenti per fondare su di essi la contestazione di addebito che intende muovere al dipendente.