10 Maggio 2013
Il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 37 del 22 aprile 2013, ha fornito alcune importanti precisazioni sulle principali tematiche affrontate dalla Riforma Fornero (l. 92/2012), esplicitando i propri orientamenti interpretativi.
Di seguito, pertanto, si indicano i principali chiarimenti forniti dal suddetto Dicastero, suddivisi per argomento.
Contratti di lavoro a tempo determinato.
Come è naturale, le precisazioni ministeriali si sono concentrate sul c.d. contratto a termine acausale, introdotto dalla l. 92/2012, ai sensi della quale i datori di lavoro possono stipulare il primo contratto a tempo determinato anche senza alcuna ragione di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo, purché la durata di tale rapporto non sia superiore a 12 mesi.
Al riguardo, il Ministero ha precisato che tale forma contrattuale può essere utilizzata anche qualora tra il datore di lavoro ed il dipendente sia già intercorso un rapporto di lavoro autonomo (co.co.co., lavoro a progetto, etc.), mentre è preclusa qualora le medesime parti abbiano stipulato, in precedenza, un contratto di lavoro subordinato, sia a tempo determinato, sia a tempo indeterminato (anche intermittente).
Il contratto in questione (acausale), così come espressamente previsto dalla Riforma, non può essere in alcun caso prorogato; può, invece, proseguire successivamente alla scadenza in virtù della c.d. prosecuzione di fatto, di durata non superiore a 30 o a 50 giorni, a seconda della durata (inferiore o superiore a 6 mesi) del contratto originario.
Di conseguenza, la durata massima del contratto a termine acausale, considerando anche la possibile prosecuzione, è pari a 12 mesi e 50 giorni.
Con riferimento alla prosecuzione di fatto, inoltre, il Ministero ha ribadito la necessità che la stessa sia preceduta da una apposita comunicazione preventiva; a tal proposito, tuttavia, ha precisato che l’omissione di tale obbligo non dà luogo ad alcuna conseguenza sanzionatoria, né integra gli estremi del lavoro in nero, a condizione che la prosecuzione sia limitata nei termini massimi previsti.
Il competente Dicastero, inoltre, si è occupato anche degli intervalli che necessariamente devono distanziare due successivi contratti a termine, i quali, a seguito della Riforma Fornero, sono pari a 60 o 90 giorni, a seconda della durata del precedente rapporto (inferiore o superiore a 6 mesi).
A tal riguardo, è stato chiarito che tali intervalli devono essere rispettati anche nel caso in cui il secondo contratto sia stipulato per sostituzione di dipendenti in maternità; in tal modo, pertanto, la circolare contraddice quanto precedentemente sostenuto dal back office del Ministero del Lavoro, già criticata dalo scrivente studio con precedente nota.
Sono esonerati dal rispetto degli intervalli in questione, invece, i contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 8, comma , l. 223/1991, con lavoratori collocati in mobilità.
Gli intervalli minimi sopra indicati, possono essere ridotti (sino al minimo di 20/30 giorni) dalla contrattazione collettiva, anche aziendale, la quale, tuttavia, secondo la circolare, deve indicare espressamente i casi in cui può operare tale riduzione.
Secondo quanto chiarito dalla circolare, pertanto, non si tratterebbe di una delega in bianco alla contrattazione collettiva, la quale non si potrebbe limitare ad autorizzare un singolo datore di lavoro ad assumere tout court i lavoratori a termine senza il rispetto dei termini in questione.
Tale opzione interpretativa, tuttavia, non appare coerente con il dettato della norma (art. 5, comma 3, d.lgs. 368/2001), la quale prevede espressamente la possibilità di adottare i termini ridotti in tutti i casi previsti dalla contrattazione collettiva, conferendo perciò alla stessa una ampio margine di discrezionalità.
Si rammenta, inoltre, che – ai sensi dell’art. 8 della l. 148/2011 – i contratti collettivi decentrati stipulati con le rappresentanze sindacali dotate di adeguati livelli di rappresentatività, ove finalizzati al mantenimento o all’incremento dell’occupazione, possono derogare alla vigente normativa in materia di lavoro a tempo determinato.
Ad ogni modo, alla luce delle recenti precisazioni ministeriali, appare opportuno adottare ogni possibile cautela al fine di evitare la conversione dei rapporti di lavoro a termine in contratti di lavoro a tempo indeterminato.
Infine, il Ministero ha ribadito il proprio parere in merito all’applicabilità del limite dei 36 mesi anche ai contratti di lavoro somministrato, confermando l’orientamento secondo cui, una volta decorso tale termine (calcolato come somma tra i contratti di lavoro a termine ed i rapporti di lavoro subordinato), sarebbe preclusa soltanto la possibilità di stipulare un nuovo contratto a tempo determinato, e non quella di ricorrere nuovamente al lavoro somministrato.
Contratto di lavoro a chiamata.
Come già precisato in precedenti note, a seguito della Riforma Fornero il lavoro intermittente (o “a chiamata”), può essere validamente utilizzato, anche in assenza di previsioni collettive, a prescindere dalla motivazione, con lavoratori di età inferiore a 24 anni o superiore a 55 anni.
Inoltre, in difetto di diverse previsioni da parte della contrattazione collettiva, continua ad essere ammesso il ricorso al lavoro a chiamata nei casi delle lavorazioni individuate dal r.d. 2625/1923.
In ogni caso, il Ministero ha ribadito che la discontinuità delle prestazioni – necessaria al fine del ricorso alla fattispecie contrattuale in questione – è ravvisabile in ogni caso in cui la durata della prestazione non coincida perfettamente con quella del contratto.
In altri termini, come già precisato dal Ministero con circolare n. 20/2012, le prestazioni del lavoratore intermittente, anche se rese per lunghi lassi di tempo continuativi, devono essere intervallate “da una o più interruzioni”, non potendo costituire un unico lungo periodo lavorativo.
Contratto di lavoro accessorio.
Si tratta, come noto, di prestazioni di carattere occasionale remunerate, entro precisi limiti quantitativi, mediante l’attribuzione di voucher comprensivi della contribuzione Inps e del premio assicurativo Inail.
La Riforma Fornero non richiede più, per la validità del contratto di lavoro accessorio, che lo stesso sia stipulato per l’esecuzione di determinate attività (ad esempio: giardinaggio, manutenzione, etc.), cosicché l’unica condizione per l’utilizzo di tale rapporto di lavoro è il rispetto dei limiti di carattere economico.
Le prestazioni di lavoro accessorio, infatti, non possono dare luogo – con riferimento alla totalità dei committenti – a compensi superiore a 5.000 euro per ciascun anno solare, al netto delle ritenute di legge.
Appare evidente, pertanto, l’opportunità di richiedere ai lavoratori in questione il rilascio di apposite dichiarazioni in merito ai compensi già percepiti a titolo di lavoro accessorio presso altri committenti, oltre che un impegno a comunicare eventuali variazioni di tale dato.
Nel caso degli imprenditori commerciali, inoltre, il singolo rapporto di lavoro accessorio non può comportare l’erogazione di compensi annui superiore a 2.000 euro.
Al proposito, la circolare ministeriale n. 3/2013 precisa che possono essere qualificati come “imprenditori commerciali” tutti i soggetti (persone fisiche o giuridiche) che, a prescindere dall’attività svolta, operino su un determinato mercato.
Si ripropone qui, pertanto, la problematica già emersa con riferimento alla corretta determinazione delle c.d. “quote di riserva”; in tale ambito, infatti, alcune Direzioni Territoriali del Lavoro hanno qualificato le strutture sanitarie no-profit come “imprese commerciali” e, quindi, hanno ritenuto non applicabili alle stesse le agevolazioni previste dall’art. 3, comma 3, della l. 68/1999, che consente alle organizzazioni socio-assistenziali operanti senza finalità di lucro (e, secondo le interpretazioni ministeriali, con modalità “non commerciali”) di calcolare le predette quote esclusivamente sul personale amministrativo e tecnico-esecutivo.
Al riguardo, si evidenzia che il Ministero del Lavoro, mediante la circolare in esame, ha precisato che il rispetto dei limiti economici previsti dalla legge costituisce l’unico requisito per l’utilizzo di tale forma di lavoro, tantoché, in caso di ispezioni, al personale preposto non è sarà consentito di svolgere accertamenti in merito alle concrete modalità di svolgimento del rapporto.
Ed infatti, viene precisato che “se sono corretti i presupposti di instaurazione del rapporto, il Legislatore presume che qualunque prestazione rientrante nei limiti economici sopra descritti sia per definizione occasionale ed accessoria, anche se in azienda sono presenti lavoratori che svolgono la medesima prestazione con un contratto di lavoro subordinato”.
Di conseguenza, al fine di evitare sanzioni amministrative (oltreché, in caso di contenzioso, la possibile costituzione di un rapporto di lavoro subordinato) appare prudenzialmente opportuno limitare entro il suddetto limite di 2.000 euro annui i compensi dei lavoratori di cui trattasi.