Si segnala un’interessante sentenza della Corte di Cassazione del 17 febbraio 2012, n. 2314, in cui si affronta il tema dell’obbligo da parte del datore di lavoro di effettuare le trattenute sulle buste paga dei lavoratori per il pagamento dei contributi sindacali, anche alla luce della disciplina in materia di incedibilità degli stipendi estesa ai dipendenti privati dall’art. 1, comma 137, della L. 31 dicembre 2004, n. 311.
Il tema della cessione dei contributi sindacali è stata già affronta dallo scrivente con nota del 1° gennaio 2002, prima che intervenisse la Corte di Cassazione (sia a sezioni semplici che a sezioni unite) a chiarire l’argomento in oggetto.
Come già precisato nella nota di cui sopra (a cui integralmente si rimanda) nel referendum del 1995 sono stati abrogati i commi 2° e 3° dell’art. 26 L. n. 300/70, i quali prevedevano l’obbligo del datore di lavoro – a fronte della manifestazione di volontà del lavoratore – di versare, tramite trattenuta sulla retribuzione, i contributi sindacali in favore dell’associazione sindacale alla quale il lavoratore richiedente era iscritto (a prescindere dalla circostanza che il sindacato a cui il dipendente aderiva, fosse o meno firmatario del ccnl applicato).
Posto che alcuni contratti collettivi hanno continuato a garantire la contribuzione per i sindacati firmatari (così come quelli per il personale non medico (art. 81), Uneba (art. 12) e personale medico (art. 35), si è creata una querelle giurisprudenziale circa il permanere dell’obbligo del datore di lavoro di versare i contributi sindacali anche in favore di quelle associazioni non firmatarie del contratto collettivo.
La giurisprudenza di Cassazione è intervenuta a Sezioni Unite con la sentenza n. 28269 del 21 dicembre 2005, affermando che, in assenza di specifiche norme di legge, il lavoratore possa richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi da accreditare al sindacato di appartenenza attraverso l’istituto della cessione del credito ex art. 1260 ss. c.c. (ricostruzione comunque opinabile poiché in contraddizione rispetto alla volontà popolare espressa nel referendum del 1995), salvo che il datore di lavoro non fornisca la prova circa l’eccessiva gravosità dell’adempimento (su tale ultimo aspetto, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che neanche l’eccessivo numero dei dipendenti valga come giustificato motivo, cfr. Cass. Civ. sez. lav., 20 aprile 2011, n. 9049).
E’ importante, però, sottolineare che la suddetta sentenza non tiene conto della modifica del testo dell’art. 1 del D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, operata dall’art. 1, comma 137, della L. n. 311 del 30.12.2004 (in quanto alla fattispecie concreta, si applicava, ratione temporis, la normativa antecedente) che ha esteso anche ai dipendenti privati le norme in tema di limiti e divieti di cedibilità degli stipendi, previste, prima, per i soli dipendenti del comparto pubblico.
Orbene, l’art. 5 del D.P.R. n. 180/50 prevede che i dipendenti possono contrarre prestiti da estinguersi con cessione di quote di stipendio fino ad un quinto e per un periodo massimo di dieci anni, nei limiti previsti dalle disposizioni del titolo II e III; mentre, gli artt. 15 e 53 (facenti parte, rispettivamente, del titolo II e III) individuano espressamente gli istituti autorizzati, in via esclusiva, a concedere prestiti ai dipendenti (tra cui le banche, le società finanziarie, le società assicurative, le casse di risparmio, ecc.).
Dunque, ci si è chiesti se, a seguito dell’estensione ai lavoratori privati della disciplina di cui al D.P.R. n. 180/50, sia ancora possibile per i datori di lavoro cedere ai sindacati a titolo di contributi associativi, parte della retribuzione di quei lavoratori che ne facciano richiesta, atteso che le associazioni sindacali non rientrano negli istituti indicati dagli artt. 15 e 53, oppure se tale cessione sia ormai da considerarsi vietata dalla legge.
Orbene, la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata per la prima volta su tale aspetto soltanto con la summenzionata sentenza del 17 febbraio 2012, n. 2314.
In particolare, nella fattispecie da cui trae origine la sentenza, la società ricorrente sosteneva, appunto, che sarebbe contrario alla legge cedere liberamente una parte della retribuzione alle associazioni sindacali a titolo di quote associative, poichè la cessione sarebbe ormai consentita solo in favore degli istituti di credito indicati negli artt. 15 e 53 D.P.R. n. 180/50.
Orbene, la Corte di Cassazione ha precisato che le limitazioni introdotte dagli artt. 15 e 53 riguardano le cessioni di credito retributivo collegate alla erogazione di prestiti, mentre, la norma di cui all’art. 52 del D.P.R. n. 180/50, prevede che possono essere cedute liberamente quote di stipendio (con l’unico limite del quinto e della durata massima di dieci anni) non prevedendo, pertanto, particolari limiti circa il novero dei cessionari (tra cui possono ricomprendersi anche le associazioni sindacali o le associazioni professionali di categoria).
Pertanto, alla luce di quanto sopra, i datori di lavoro (ivi comprese le strutture sanitarie) saranno ancora tenuti, in caso di notifica della cessione del credito e nonostante l’applicazione ai dipendenti privati del D.P.R. n. 180/50, ad effettuare le trattenute sulle buste paga ai fini del pagamento delle quote associative sindacali, a prescindere dall’appartenenza o meno del lavoratore all’associazione firmataria del ccnl applicato, pena il risarcimento derivante dall’ingiustificato inadempimento e la commissione di comportamenti valutabili come antisindacali, ex art. 28 L. n. 300/70 (fermo restando il diritto di trattenere – previa comunicazione ai singoli dipendenti – gli importi a titolo di oneri amministrativi ed economici assunti: a titolo esemplificativo, spese di giroconto, di imputazione e/o amministrative).