29 Settembre 2015
Ai sensi dell’art. 2103 c.c., la legittimità del trasferimento del lavoratore da una sede produttiva ad un’altra è subordinata all’esistenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” (art. 2103 c.c., come modificato dall’art. 13 della l. n. 300/70).
Con tale disposizione (rimasta invariata anche dopo l’intervento del d.lgs. n. 81/15 sul citato art. 2103 c.c.), in sostanza è stato arginato lo ius variandi del datore di lavoro, al fine di evitare che la modifica unilaterale del luogo di svolgimento della prestazione fosse rimessa al mero arbitrio datoriale, attesa l’inevitabile incidenza che un simile provvedimento potrebbe avere sulla vita privata e relazionale del dipendente.
Secondo il tenore letterale dell’art. 2103 c.c., ai fini della legittimità del provvedimento è necessario esclusivamente che il datore di lavoro sia in grado di dimostrare (nell’eventuale giudizio di impugnativa attivato dal dipendente) l’effettiva esistenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo poste alla base del trasferimento, senza altri oneri (neppure formali) a suo carico.
Sennonché la giurisprudenza ha, nel tempo, introdotto un ulteriore obbligo in capo al datore di lavoro, ritenendo applicabile – per analogia – quanto precedentemente previsto dall’art. 2 della legge n. 604/66 in materia di licenziamenti.
Tale disposizione, si ricorderà, prevedeva che il datore di lavoro fosse tenuto – a pena di inefficacia – a comunicare i motivi del licenziamento nel termine perentorio di 7 gg, allorché il lavoratore ne avesse fatto richiesta (entro 15 gg dal provvedimento).
L’esistenza di un simile onere anche nelle ipotesi di trasferimento (ormai ritenuto pacificamente sussistente dalla giurisprudenza) ha creato alcuni problemi interpretativi dopo la cd. Riforma Fornero (l. 92/12), che, intervenendo sull’art. 2 della l. n. 604/66, ha previsto che la lettera di licenziamento debba contenere la contestuale indicazione dei motivi che lo hanno determinato, abrogando la disciplina relativa alla successiva comunicazione delle ragioni poste alla base del provvedimento.
Ci si è chiesti, infatti, se alla luce della nuova disciplina sul licenziamento, anche per il trasferimento sia sorto l’onere di comunicazione contestuale delle ragioni che lo hanno determinato o, ai fini dell’efficacia del provvedimento, continui ad essere richiesto che il lavoratore che ne faccia richiesta sia messo in condizione di conoscere le motivazioni del trasferimento, al fine di verificarne la non arbitrarietà e l’effettività.
Sulla possibilità che il dettato di cui alla l. n. 604/66, come novellato nel 2012, possa continuare ad applicarsi – per analogia – anche all’ipotesi dei trasferimenti si è espresso il Tribunale di Roma, il quale, con sentenza del 23 gennaio 2015, n. 744, ha precisato come “anche dopo l’entrata in vigore della l. n. 92/2012, che ha modificato l’art. 2, 2° comma, L. n. 604/66 (in passato ritenuto analogicamente applicabile alla comunicazione del trasferimento) imponendo che la comunicazione dei motivi che lo hanno determinato sia contestuale alla comunicazione del licenziamento, ai fini dell’efficacia del trasferimento continua a non essere necessario che vengano contestualmente enunciate le ragioni del provvedimento”.
Alla luce di tale precisazione giurisprudenziale (che, si spera, sia confermata in futuro anche dai giudici di legittimità), si potrà continuare a disporre il trasferimento dei lavoratori senza comunicare contestualmente le ragioni poste alla base del provvedimento, fermo restando che, in caso di richiesta dei motivi, sarà opportuno continuare a fornire un riscontro (prudenzialmente) entro i termini previsti dalla previgente disciplina in materia di licenziamento, al fine di escluderne l’inefficacia.
Al riguardo, si evidenzia come l’individuazione della concreta disciplina applicabile alle ipotesi di trasferimento abbia inevitabili risvolti di carattere pratico, in quanto nel caso in cui il provvedimento dovesse essere dichiarato inefficace, ciò inficerebbe anche gli eventuali provvedimenti disciplinari assunti nei confronti del dipendente che si sia rifiutato di prendere servizio presso la sede di destinazione.
Resta, inoltre, inteso che anche nelle ipotesi di trasferimento inefficace per mancata comunicazione dei motivi nei termini previsti è certamente in facoltà del datore di lavoro ripetere l’atto inefficace, ferma restando – ai fini della legittimità del provvedimento – la necessità che lo stesso sia sorretto da comprovate ragioni, secondo quanto prescritto dalla legge.