26 Giugno 2018
Con la recente sentenza n. 11408 dell’11 maggio 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che in caso di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 cod. civ., l’inadempimento datoriale (riconducibile all’inesistenza delle ragioni tecniche, organizzative e produttive) non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa.
Sulla base del suddetto principio di diritto gli Ermellini hanno cassato con rinvio la pronuncia della Corte di Appello di Roma che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento comminato ad un dipendente che si era rifiutato di rendere la prestazione lavorativa presso la sede di Torino (a seguito del trasferimento da quella di Roma), ritenendo che i giudici di merito avessero omesso di accertare se, nel caso concreto, l’inadempienza del datore di lavoro (costituita dal trasferimento illegittimo) era di gravità tale da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore, il quale solo in tal caso poteva rifiutarsi di rendere la prestazione lavorativa presso la nuova sede.
Con la sentenza in esame i giudici di piazza Cavour hanno così preso le distanze da quell’orientamento giurisprudenziale che si era affermato in passato, in ossequio al quale era stato ritenuto che il trasferimento privo di ragioni tecniche, organizzative e produttive, integrando una condotta datoriale illecita, giustificherebbe di per sé la mancata ottemperanza da parte del lavoratore, sia in attuazione dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 cod. civ. sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio (in questo senso Cass. 24/07/2017 n. 18178; Cass. 16/05/2013 n. 11927; Cass. 30/12/2009 n. 27844).
La Suprema Corte con la sentenza dello scorso maggio, invece, giunge ad una soluzione diametralmente opposta, ponendosi sulla medesima linea interpretativa di un’altra precedente propria pronuncia (Cass. n. 18866/2016), la quale aveva affermato che in caso di trasferimento non adeguatamente giustificato a norma dell’art. 2103 cod. civ., il rifiuto del lavoratore di prendere servizio presso la sede di destinazione deve essere proporzionato all’inadempimento datoriale, dovendo essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, configurandosi, altrimenti, l’arbitrarietà dell’assenza dal lavoro.
A bene vedere, la sentenza in questione si spinge oltre sostenendo che il trasferimento contra legem ad altra sede lavorativa disposto dal datore di lavoro, e cioè in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive (valutate ex post come tali in sede giudiziale), non giustifica in via automatica il rifiuto del lavoratore all’osservanza del provvedimento e quindi la sospensione della prestazione lavorativa.
La Suprema Corte, quindi, sposando in pieno la tesi della difesa del datore di lavoro, ha sostenuto che il lavoratore a fronte dell’inadempimento datoriale (costituito dal trasferimento illegittimo) non può opporre un rifiuto totale di rendere la prestazione lavorativa se non nell’ipotesi in cui il provvedimento del datore di lavoro si riveli di una gravità tale da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore.
La suddetta pronuncia, pertanto, conferma che l’inottemperanza ad una disposizione datoriale (prima che venga giudicata illegittima) consente di adottare i provvedimenti sanzionatori ritenuti più opportuni (finanche il licenziamento), a meno che la stessa si palesi ictu oculi contraria al principio di buona fede contrattuale e talmente grave da incidere irrimediabilmente sulla sfera personale del lavoratore.
In quest’ultimo caso, però, l’onere della prova (per nulla indifferente) grava sul lavoratore, il quale – oltre ad ottenere la declaratoria di illegittimità della disposizione datoriale – sarà tenuto a dimostrare che l’adempimento di quest’ultima sarebbe concretamente inconciliabile con la propria vita personale e comporterebbe un pregiudizio irreparabile alla stessa.