22 Aprile 2016
Con sentenza del 10 settembre 2015 (causa C-266/14), la Corte di Giustizia Europea è intervenuta nuovamente a chiarire la nozione di orario di lavoro contenuta all’art. 2 della Direttiva 2003/88 (già prevista dalla precedente direttiva 93/104 in termini del tutto identici e recepita in Italia dall’art. 1 del d.lgs. n. 66/03).
Ai sensi delle disposizioni comunitarie (e nazionali), per orario di lavoro si intende, come noto, “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.
Dunque, per integrare la nozione di orario di lavoro è necessaria la contemporanea sussistenza di due condizioni:
– che il lavoratore sia fisicamente sul luogo di lavoro;
– che sia a disposizione del datore di lavoro e, quindi, soggetto al suo potere direttivo e di controllo.
Nel tempo la giurisprudenza (interna e comunitaria) ha, invero, ampliato le maglie dei requisiti normativamente previsti, tanto da ritenere – ad esempio – compresi nell’orario di lavoro anche i tempi di vestizione e svestizione, in cui i lavoratori (seppur sul luogo di lavoro) non si trovano certamente nell’esercizio delle loro attività lavorative (e molte volte neppure a disposizione del datore di lavoro).
Nello stesso solco si pone la pronuncia della Corte di Giustizia europea in commento, secondo cui i lavoratori che non hanno un luogo di lavoro fisso e abituale hanno diritto a vedersi riconosciuto come orario di lavoro retribuito il tempo impiegato per gli spostamenti quotidiani dal proprio domicilio ai luoghi in cui si trovano il primo e l’ultimo cliente indicati dal datore di lavoro.
Il caso di specie su cui sono stati chiamati a pronunciarsi i giudici comunitari riguarda, in breve, la definizione dell’orario di lavoro dei dipendenti di una società spagnola di sistemi di sicurezza, che aveva deciso di chiudere tutte le sedi regionali, lasciando come unico centro direzionale per l’intera Spagna la sede di Madrid.
Da quel momento in poi, i lavoratori (che prima si recavano presso le sedi locali per timbrare l’inizio ed il termine dell’orario di lavoro) erano stati dotati di autovettura per eseguire gli spostamenti presso i clienti, di carta di credito per l’acquisto del carburante necessario ai suddetti spostamenti e di telefono cellulare, sul quale – qualche ora prima dell’inizio della giornata lavorativa – ricevevano la lista dei clienti e l’ordine cronologico in cui eseguire gli interventi.
Come orario di lavoro, la società computava esclusivamente il tempo intercorrente tra l’inizio dell’attività presso il primo cliente ed il termine della stessa presso l’ultimo cliente, con esclusione quindi dei tempi di percorrenza casa-lavoro e viceversa (come, di norma, avviene per la generalità dei lavoratori).
Basandosi sulla ratio protezionistica della normativa in materia di orario di lavoro (più che sul tenore letterale delle disposizioni che ne contengono la definizione) i giudici comunitari hanno evidenziato come, di contro, quando “i lavoratori non hanno un luogo di lavoro fisso e abituale, costituisce orario di lavoro, ai sensi di tale disposizione il tempo di spostamento che tali lavoratori impiegano per gli spostamenti quotidiani tra il loro domicilio ed i luoghi in cui si trovano il primo e l’ultimo cliente indicati dal loro datore di lavoro”.
Secondo la Corte di Giustizia, la circostanza per cui i lavoratori debbano iniziare e terminare la propria prestazione presso il loro domicilio sarebbe, infatti, “una conseguenza diretta della decisione del datore di lavoro di eliminare gli uffici regionali e non della volontà di tali lavoratori. Poiché questi ultimi hanno perso la possibilità di determinare liberamente la distanza che separa il loro domicilio dal luogo abituale di inizio e di fine della loro giornata lavorativa, essi non possono essere tenuti a farsi carico della scelta del loro datore di lavoro”.
In sostanza, secondo i giudici, solo se il lavoratore ha certezza del luogo in cui inizierà e terminerà la propria prestazione lavorativa è posto nella condizione di scegliere a che distanza dallo stesso abitare e, quindi, di quanto “contrarre” il proprio riposo (effettivo) giornaliero, per raggiungere la sede di lavoro e, al termine della giornata, nuovamente la propria abitazione.
Di contro, ove non vi sia alcuna sede fissa di lavoro e sia il datore di lavoro a stabilire – di volta in volta – il luogo di inizio e di fine delle attività lavorative, dovrà essere computato all’interno dell’orario di lavoro anche il tempo impiegato dal dipendente per raggiungere il primo cliente e, all’esito dell’ultima prestazione, il proprio domicilio. Le peculiarità del caso concreto, cui più volte si accenna nella sentenza e delle quali i giudici comunitari hanno espressamente tenuto conto nell’interpretazione della disposizione relativa all’orario di lavoro, impediscono – tuttavia – di estrapolare un principio di diritto valevole per tutte le situazioni.
Ciò che sembra certo è che debba essere computato nell’orario di lavoro il tempo impiegato dai lavoratori che non abbiano una vera e propria sede di lavoro, che abitualmente prestino la loro attività recandosi dai clienti e la cui agenda di appuntamenti sia stabilita dal datore di lavoro.
Con riguardo alle attività lavorative di tipo sanitario e socio-assistenziale, il principio di diritto contenuto nella pronuncia in commento potrebbe avere una qualche rilevanza per gli operatori addetti ai servizi domiciliari, il cui orario di lavoro corrisponda con l’inizio della prima prestazione resa presso il domicilio degli utenti ed il termine con l’ultima.
Tuttavia, a differenza del caso sottoposto agli organi di giustizia comunitari, gli operatori dei servizi domiciliari hanno sempre una sede di lavoro ben determinata (coincidente con la struttura sanitaria di appartenenza) e le prestazioni vengono sempre svolte in un ambito territoriale ristretto e, comunque, prossimo alla sede di lavoro, cosicché certo non può sostenersi (come invece nell’ipotesi esaminata dai giudici comunitari) che si verifichi un pregiudizio che impedisce ai lavoratori di poter scegliere il luogo della loro abitazione (al fine di non contrarre il riposo giornaliero).
Un’ultima notazione merita, infine, lo spunto fornito dalla sentenza in esame che – a fronte di precise obiezioni sollevate da alcuni governi nazionali intervenuti in giudizio, circa l’inevitabile innalzamento dei costi a fronte di una simile interpretazione – ha sottolineato come, a differenza della nozione di orario di lavoro che appartiene al diritto comunitario (e, come tale, è inderogabile), “le modalità di retribuzione dei lavoratori in una situazione come quella di cui al procedimento principale non rientra in detta direttiva, ma nelle disposizioni pertinenti del diritto nazionale”; in sostanza, la Corte sembra avallare la possibilità che la contrattazione collettiva (per lo meno per quanto riguarda l’ordinamento italiano) possa prevedere che il tempo impiegato per percorrere il tragitto casa-lavoro (e viceversa), ove rientrante nell’orario di lavoro (secondo i principi sopra richiamati), sia remunerato in maniera diversa rispetto alla retribuzione ordinariamente prevista per la normale attività lavorativa.