26 Gennaio 2016
La Corte di Cassazione, di recente, si è espressa in materia di corretta individuazione del termine per impugnare il licenziamento così come disciplinato dall’art. 6 della legge 604/66 e s.m.i.
La citata disposizione legislativa prevede che il licenziamento debba essere impugnato, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione e che la relativa impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del Tribunale competente, ovvero dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.
Entrambi i termini decadenziali indicati dalla suddetta disposizione di legge (ergo 60 e 180 giorni) devono essere dunque rispettati dal lavoratore licenziato, il quale – entro 60 giorni dalla ricezione della lettera di licenziamento – deve attivarsi per inoltrare al datore di lavoro la lettera di impugnativa, nonché – entro 180 giorni dall’invio della lettera di impugnativa – deve, altresì, provvedere al deposito del ricorso giudiziale (ovvero richiedere l’espletamento del tentativo di conciliazione o arbitrato).
In particolare, con la sentenza n. 20068 del 7 ottobre 2015, la Cassazione ha chiarito che il successivo termine di 180 giorni che il lavoratore ha a disposizione per perfezionare l’impugnativa del licenziamento decorre dalla data di trasmissione dell’atto di impugnazione escludendo, una volta per tutte, che il predetto termine possa invece farsi decorrere dalla ricezione dello stesso da parte del datore di lavoro.
Tale interpretazione, spiegano i giudici di legittimità, è coerente con la finalità acceleratoria che il legislatore ha voluto perseguire con le modifiche apportate dalla Riforma Fornero all’art. 6 della legge 604/66, in virtù delle quali – si rammenta – il termine per il deposito del ricorso giudiziale è stato ridotto da 270 a 180 giorni.
Inoltre una simile esegesi del testo normativo appare, a parere della Cassazione, maggiormente garantista per il lavoratore che in tal modo è perfettamente in grado di calcolare con certezza la scadenza del secondo termine decadenziale entro il quale depositare il ricorso giudiziale, senza quindi doversi affidare all’attività di soggetti terzi (come gli uffici postali o giudiziali) sul cui operato lo stesso certamente non può influire.
Con la successiva pronunzia del 5 novembre 2015 n.22627, emessa dalla Cassazione sempre in tema di termini per impugnare il licenziamento, i giudici di legittimità hanno altresì chiarito che i termini di decadenza dell’impugnazione del licenziamento si applicano anche nei casi in cui il recesso sia stato comminato ad un dirigente.
La suindicata pronunzia trae spunto da un causa intentata da un medico dirigente licenziato, per giustificato motivo oggettivo, da un importante IRCSS di diritto privato milanese.
Il giudice di primo grado e quelli della Corte d’Appello di Milano, in accoglimento dell’eccezione formulata dalla struttura sanitaria, hanno ritenuto il medico ormai decaduto dalla possibilità di impugnare il licenziamento non avendo quest’ultimo provveduto ad una formale impugnazione nei termini di 60 giorni dalla ricezione della lettera di recesso.
Il lavoratore, di contro, sosteneva che al personale dirigenziale non fosse applicabile la disciplina limitativa prevista dalla legge 604/66 compreso l’art. 6 che individua i termini di impugnativa del licenziamento.
I giudici di legittimità hanno chiarito che – seppure l’art. 10 della legge n. 604/66 preveda che le norme della stessa si applichino «nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestono la qualifica di impiegato ed operaio» – l’art. 32 della Legge 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) ha sostituito interamente l’art. 6 della legge citata stabilendo espressamente che le relative disposizioni «si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento».
Pertanto, a parere della Suprema Corte, i termini di decadenza dell’impugnazione si applicano in ogni caso in cui si deduca l’invalidità del licenziamento (come nel caso in esame, nel quale era stata rivendicata la nullità del recesso perché asseritamente discriminatorio) «non assumendo rilievo la categoria legale di appartenenza del lavoratore».
Tale interpretazione appare corrispondente all’esigenza di garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di precisi termini di decadenza ed inefficacia i quali, quindi, secondo i giudici di legittimità operano con riferimento ad un dato oggettivo (costituito dall’invalidità del licenziamento) e superando la limitazione prevista dall’art.10 delle legge 604 del 1966.
Tale interessante pronunzia si colloca in un panorama giurisprudenziale nel quale, peraltro, già erano stati esclusi dall’ambito di non operatività della legge 604/66 e della legge 300/70 i c.d. “pseudo dirigenti”, ovvero quei lavoratori che – pur classificati come tali – non rivestono di fatto nell’organizzazione aziendale quel ruolo di incisività o rilevanza tipico dei veri dirigenti.