24 Aprile 2015
Il tema dello stress lavoro-correlato, soprattutto nel corso degli ultimi anni, è divenuto terreno fertile di studio per i giuslavoristi, sollecitati dal dato empirico secondo cui è la sfera psichica (prima e più frequentemente di quella fisica) ad essere sottoposta a rischi nell’ambiente di lavoro.
Il Testo Unico in materia di salute e sicurezza nel lavoro (d.lgs. n. 81/2008, come modificato dal d.lgs. n. 106/2009) – i cui contenuti essenziali sono stati già più volte analizzati (cfr., ad esempio, nota del 12 maggio 2008) – ha esplicitato il principio in forza del quale la valutazione dei rischi (cui il datore di lavoro è obbligato) deve concernere i fattori, non solo c.d. tradizionali (ad esempio, quelli relativi all’uso di sostanze pericolose e/o di macchinari), ma anche quelli di tipo “immateriale”, tra i quali, appunto, è espressamente menzionato quello da stress lavoro-correlato (come definito dall’Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004, recepito in Italia dall’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2008).
La valutazione di tale tipologia di rischio, parte integrante della valutazione di tutti gli altri fattori c.d. tradizionali, deve essere effettuata, quindi, avvalendosi del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) con il coinvolgimento del medico competente, e previa consultazione del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS).
Peraltro, tale valutazione deve prendere in esame non il singolo dipendente (il quale potrebbe avere una sua peculiare, e del tutto soggettiva, percezione delle condizioni di lavoro) ma gruppi omogenei di lavoratori (per esempio, per mansioni o partizioni organizzative), i quali risultino esposti a rischi della stessa tipologia, secondo un’individuazione di carattere generale che ciascun datore di lavoro può autonomamente effettuare in ragione della effettiva organizzazione aziendale (ad esempio, i turnisti ovvero i dipendenti di un determinato settore, ecc.).
In ordine alla nozione di tale specifico fattore di rischio, l’Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004 ha, in primis, definito lo stress lavoro-correlato come “una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative”; dall’altro, nel tentativo di agevolarne l’individuazione nella pratica, ha elencato i seguenti indicatori: “alto grado di assenteismo e di ricambio del personale, frequenti conflitti interpersonali o lamentele dei lavoratori”, elencando i possibili fattori negativi da tenere in considerazione connessi a: “organizzazione del lavoro e dei suoi processi (accordi sul tempo di lavoro, grado di autonomia, incontro tra capacità dei lavoratori e requisiti del lavoro, carico di lavoro), le condizioni lavorative ed ambientali (esposizione a comportamenti offensivi, rumore, calore, sostanze pericolose, ecc.), la comunicazione (incertezza sulle aspettative del lavoro, prospettive occupazionali, cambiamenti futuri, ecc.) e fattori soggettivi (pressioni emotive e sociali, sensazione di inadeguatezza, percezione di mancanza di sostegno, ecc.)”.
Cionondimeno il Legislatore italiano – a fronte delle rilevanti difficoltà operative emerse nella fase di attuazione pratica di tale obbligo datoriale – ha inserito (in sede di adozione delle disposizioni integrative e correttive al citato d.lgs. n. 81/2008) il comma 1-bis all’art. 28, con cui si è attribuito alla Commissione Consultiva Permanente per la salute e sicurezza del lavoro il compito di individuare una metodologia per operare una corretta valutazione preventiva di tale specifico rischio, onde permettere ai datori di lavoro un “livello minimo di attuazione” dell’obbligo correlato.
La suddetta Commissione, in data 17 novembre 2010, ha approvato una serie di indicazioni per la valutazione dello stress lavoro-correlato (successivamente allegate alla lettera circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali prot. 15/SEGR/0023692 del 18 novembre 2010).
In sostanza la Commissione ha individuato una procedura articolata in due fasi:
– la prima (necessaria) volta a rilevare la presenza di indicatori oggettivi riferiti ad eventi c.d sentinella (indici infortunistici, assenze per malattia, ecc.), a fattori di contenuto del lavoro (carichi e ritmi di lavoro, orario di lavoro e turni, ecc.) ed a fattori di contesto del lavoro (conflitti interpersonali, evoluzioni e sviluppo di carriere, comunicazione, ecc); laddove, all’esito di questa prima fase preliminare, non emergono elementi di rischio, tali da richiedere interventi correttivi, il datore di lavoro dovrà semplicemente darne atto nel DVR, prevedendo al contempo un piano di monitoraggio; diversamente dovrà procedersi alla pianificazione ed adozione degli opportuni interventi correttivi;
– la seconda fase, c.d. valutazione approfondita, (meramente eventuale, da attuarsi laddove i correttivi adottati si rivelino inefficaci) prevede invece una valutazione della percezione soggettiva dei lavoratori.
Peraltro – come emerso da una risposta ad interpello promossa dall’ordine degli psicologici (n. 5/2012) – la predetta articolazione in due fasi non è rigida, nel senso che, laddove il datore di lavoro rilevi criticità già nella prima fase e non sappia quali interventi correttivi adottare, potrà “anticipare” la c.d. “indagine soggettiva o approfondita” al fine di individuare la tipologia di interventi da applicare.
In conclusione, la sopra descritta codificazione delle misure di valutazione dello stress lavoro-correlato ha un rilevante impatto anche (e soprattutto) sul piano processuale, nei casi in cui un lavoratore rivendichi un risarcimento per fattori nocivi ricollegabili all’organizzazione del lavoro (ossia, lamentando uno stato di stress posto in correlazione con uno dei fattori elencati nell’accordo europeo del 2004).
Nello specifico, in tali eventualità, il datore di lavoro, che abbia diligentemente seguito le procedure codificate, potrà invocare il rispetto delle specifiche disposizioni prescritte dalla legge e, quindi, in ultima analisi, sostenere di aver fatto, in ottemperanza al disposto dell’art. 2087 c.c., il possibile per tutelare la salute psico-fisica dei propri dipendenti.
In altri termini, proprio in virtù della corretta applicazione della normativa descritta, si determina una sorta di ribaltamento dell’onere probatorio (a vantaggio della parte datoriale) ed un conseguente inasprimento di quello a carico del lavoratore, il quale non potrà limitarsi alla mera allegazione di un fattore di stress presente in azienda, ma dovrà spingersi fino a dimostrare l’attuazione superficiale, omissiva o errata delle procedure valutative, documentando, altresì, la presenza di segnali di stress colposamente o dolosamente non percepiti dal datore di lavoro.