1 Luglio 2022
Importante chiarimento della Cassazione
Non si può parlare di straining laddove i disagi manifestati dal lavoratore siano direttamente legati al logoramento causato dall’ordinaria prestazione lavorativa, i quali si traducono, pertanto, in disagi privi di consistenza e gravità.
Con la recente ordinanza n. 16580 del 23 maggio 2022, la Cassazione si è espressa in merito al c.d. straining, fornendo importanti chiarimenti su alcune delle condizioni necessarie per integrare tale fattispecie.
Prima di analizzare il caso esaminato dalla Suprema Corte si rammenta che con il termine straining si fa riferimento a tutte quelle situazioni lavorative in cui vengono attuate da parte del datore di lavoro o dei colleghi condotte vessatorie e ostili con il fine per l’appunto di “stressare” un lavoratore, le quali, tuttavia, a differenza del mobbing non sono reiterate bensì limitate nel tempo.
Pertanto, lo straining può essere considerato come una forma attenuata di mobbing e l’elemento che distingue le due fattispecie risiede proprio nella continuità o meno delle condotte perpetrate.
La vicenda passata al vaglio del giudice di legittimità traeva origine dal ricorso presentato da una lavoratrice avverso la decisione della Corte d’Appello di Genova. Quest’ultima, infatti, aveva rigettato la richiesta di risarcimento del danno per comportamenti mobbizzanti o comunque indebitamente lesivi posti in essere nei suoi confronti dal datore di lavoro.
In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto che, sebbene le condotte contestate risultassero sostanzialmente pacifiche, il datore di lavoro avesse fornito argomentazioni ragionevoli e puntuali circa i comportamenti tenuti e i fatti verificatesi, dovendosi, pertanto, escludere la configurazione di un disegno persecutorio nei confronti della lavoratrice e dovendosi ricollegare piuttosto la sindrome depressiva da questa prospettata ad una sua particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative.
Nel proporre ricorso in Cassazione la lavoratrice, tra le altre doglianze, lamentava in particolare la violazione dell’art. 2087 c.c., sostenendo che in ogni caso la legittimità del comportamento del datore di lavoro non liberava lo stesso dalla responsabilità di non essersi attivato per evitare il danno.
La Suprema Corte, invece, nel rigettare la domanda della ricorrente, confermava la legittimità dell’iter argomentativo seguito dalla Corte d’Appello, ritenendo corretta l’applicazione dei criteri per verificare la configurabilità nel caso concreto dello straining.
Difatti, la Cassazione sottolinea che la “Corte territoriale non nega che la ricorrente avesse potuto sviluppare, in ragione anche dell’attività lavorativa, una sindrome depressiva, ricollegandone tuttavia l’insorgenza ad una particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative assunte dalla dirigenza scolastica e quindi escludendo che si determini il sorgere di un diritto risarcitorio”.
In tal senso, la Suprema Corte rilevava come il giudice territoriale si fosse uniformato all’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità per cui “è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844), ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291)” ma anche che “si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972);”.
Alla luce di quanto riportato, è da escludersi la configurazione dello straining laddove i disagi manifestati siano direttamente legati al logoramento causato dall’ordinaria prestazione lavorativa, i quali si traducono, pertanto, in disagi privi di consistenza e gravità, sebbene così percepiti dal dipendente per una sua particolare risposta soggettiva, e come tali non risarcibili.