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Società capogruppo quale unico datore di lavoro

15 Maggio 2015

Con la sentenza n. 23995 dell’11 novembre 2014, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi (offrendo in tale occasione apprezzabili precisazioni e utili spunti di riflessione in merito) sulla tematica del collegamento economico-funzionale tra imprese appartenenti allo stesso gruppo e sulle eventuali influenze  che lo stesso riverbera nel rapporto di lavoro.

Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte ha infatti confermato la decisione della Corte di Appello di Messina la quale, a sua volta, aveva escluso la sussistenza di un rapporto di lavoro tra il dipendente di una società appartenente ad un gruppo di imprese e la società madre (nota anche come “società capogruppo” o “Holding”) in difetto della rigorosa prova della sussistenza della c.d. “unicità di impresa” connaturata appunto al collegamento economico-funzionale esistente fra strutture facenti parte del gruppo.
La Corte, ripercorrendo il precedente orientamento dalla stessa offerto sul punto con una pronuncia del 2013, ribadisce che il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo “non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere [necessariamente n.d.r.] anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro”.

Ed infatti, è proprio partendo dall’esame di quanto chiarito dalla stessa giurisprudenza della Cassazione in tema  di unicità di impresa che la pronuncia in commento muove verso il definitivo chiarimento di tale concetto nonché, verso le conseguenze che (all’esito di un giudizio) il suo mancato riconoscimento sarebbe in grado di riflettere sul rapporto di lavoro sottostante.
Ed invero, secondo i chiarimenti espressi nel corso del tempo dai giudici della Cassazione, è possibile ritenere che sussista unicità di impresa solo qualora vi sia una simulazione o una organizzazione in frode alla legge del “frazionamento” di un’unica attività fra i vari soggetti del sopra richiamato legame economico-funzionale che lega le strutture del gruppo.
In altri termini, l’unicità di impresa emergerebbe da un esame delle attività di ciascuna impresa appartenente al gruppo in grado di rilevare l’esistenza di quei requisiti di unicità in grado di far confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune, volto al contemporaneo utilizzo della prestazione lavorativa del singolo lavoratore “nel senso che la stessa (la prestazione lavorativa n.d.r.) sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori”. (cfr. Cass. n. 3482/2013)

Per i Giudici, tale circostanza deve essere necessariamente accertata in modo adeguato e, cioè, attraverso un esame delle singole attività di ciascuna impresa coinvolta da cui sia possibile evincere:
a)    l’unicità della struttura organizzativa e produttiva;
b)    l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune;
c)    il coordinamento tecnico e amministrativo –finanziario verso uno scopo comune;
d)    l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese.

Ebbene, secondo la Corte (ed è questa la portata innovativa della pronuncia in commento) è necessario che dell’attivo collegamento della società madre (nonché della sua effettiva ingerenza nella gestione dei rapporti lavorativi) con le altre società del gruppo sia offerta – dal dipendente che rivendichi in giudizio il riconoscimento di un rapporto di lavoro in capo anche  alla capogruppo – una prova rigorosa.
Secondo i Giudici, quindi, senza alcun elemento concreto in ordine all’effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa da parte della società capogruppo o della sua concreta ingerenza nella gestione del rapporto lavorativo, l’unicità di impresa su cui si fonda il suddetto collegamento economico-funzionale deve ritenersi necessariamente esclusa e, ciò, con la conseguente impossibilità di riconoscere la sussistenza di un rapporto di lavoro tra il dipendente di una società del gruppo e la società posta a capo dello stesso.
Nella parte motiva della decisione della Suprema Corte, infatti, i giudici confermando le statuizione della Corte di merito, hanno per l’appunto escluso l’estensione degli effetti del rapporto di lavoro anche alla società capogruppo (negando in capo alla stessa la qualità di datrice di lavoro), proprio in ragione della scarsa rilevanza degli elementi probatori offerti dal lavoratore a sostegno della propria domanda, nonché – circostanza di maggior rilievo – di quelli emersi nel corso del giudizio dallo stesso incardinato.

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