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Sempre più ampio il novero delle eccezioni all’inderogabilità dell’art. 2103 c.c.

16 Marzo 2012

L’art. 2103 c.c. rappresenta una norma cardine del nostro ordinamento in materia di diritto del lavoro, contenendo la disciplina di due istituti fondamentali nell’ambito del rapporto di lavoro: le mansioni e il trasferimento del lavoratore.
La norma pone precisi limiti a quello che viene definito lo ius variandi del datore di lavoro, ossia il potere di quest’ultimo di modificare alcuni elementi del rapporto di lavoro (nello specifico, le mansioni e la sede di lavoro) al fine di renderli più confacenti alle esigenze aziendali.

L’art. 2103 c.c. – nella versione risultante dopo le modifiche introdotte dall’art. 13 Stat. Lav. – prevede, come noto, che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione; nel caso di assegnazione a mansioni superiori, inoltre, il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi.
La medesima disposizione prevede, altresì, che il lavoratore possa essere trasferito da una sede all’altra di lavoro solo al ricorrere di comprovate esigenze di carattere tecnico, organizzativo e produttivo.

Al fine di evitare elusioni, il legislatore ha poi previsto la nullità di ogni patto contrario alle previsioni contenute nell’art. 2103 c.c., introducendo un vincolo nel sistema che, per anni, è stato ritenuto invalicabile, sia dalla contrattazione collettiva sia (a maggior ragione) da quella individuale.
Nel tempo, tuttavia, l’interpretazione giurisprudenziale ha tentato di apportare dei correttivi alla rigidità della disposizione in commento partendo dalla ratio sottesa alla norma stessa: se, infatti, le previsioni di cui all’art. 2103 c.c. sono state introdotte al fine di tutelare il lavoratore da possibili abusi datoriali ed a tale scopo è stata – altresì – prevista la nullità di ogni accordo di senso contrario, è sembrato che un simile meccanismo potesse essere derogato (al di là del dato letterale) laddove una eccezione allo stesso fosse funzionale alle esigenze del lavoratore.
Le prime pronunce in tal senso si sono registrate in materia di sopravvenuta inidoneità alla mansione del prestatore: ove, infatti, il lavoratore divenga inidoneo alle mansioni di assunzione, i giudici hanno ammesso la possibilità di procedere alla stipula di un apposito patto di demansionamento, ossia un accordo in cui – allo scopo di salvaguardare il posto di lavoro – le parti individuano mansioni diverse, anche inferiori, compatibili con le condizioni fisiche del dipendente.

Secondo la Suprema Corte, infatti, “nel caso di sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni lavorative, il cosiddetto patto di dequalificazione, quale unico mezzo per conservare il rapporto di lavoro, costituisce non già una deroga all’art. 2103 c.c., norma diretta alla regolamentazione dello jus variandi del datore di lavoro e, come tale, inderogabile secondo l’espresso disposto del comma 2 dello stesso articolo, bensì un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso e dall’interesse del lavoratore” (Cass. civ. Sez. lavoro, 5 agosto 2000, n. 10339).
E’ evidente che, al di là della fictio giuridica invocata dai giudici, secondo cui il demansionamento volto a salvaguardare il posto di lavoro non sarebbe una deroga all’art. 2103 c.c., ma costituirebbe una vera e propria novazione del contratto di lavoro (allo scopo di adeguarlo alla nuova situazione di fatto), l’inderogabilità della norma in questione è stata certamente minata da queste prime pronunce in materia di inidoneità sopravvenuta, alle quali hanno fatto seguito molte altre in cui – pure – la giurisprudenza ha ammesso delle eccezioni alla previsione di cui all’ultimo comma dell’art. 2103 c.c.
Ad esempio, è stato sancito il principio secondo cui “In tema di mansioni del lavoratore, le limitazioni dello “ius variandi” introdotte dall’art. 2103 c.c., nel testo di cui all’art. 13 della l. n. 300 del 1970, e disciplinate dalla contrattazione collettiva non vengono in considerazione nell’ipotesi in cui il trasferimento del lavoratore non consegua ad un atto unilaterale posto in essere dal datore di lavoro nel suo esclusivo interesse, ma costituisca piuttosto una misura precipuamente adottata nell’interesse del lavoratore di evitare la perdita del posto, nell’impossibilità – non altrimenti ovviabile – di una prosecuzione dell’attività lavorativa nella sede di origine” (Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 2000, n. 3827).

Nel bilanciamento degli interessi del lavoratore, i giudici ritengono dunque – in ogni caso – che l’interesse a mantenere il posto di lavoro debba essere considerato preminente rispetto al diritto ad essere adibito alle mansioni di assunzione o a quelle corrispondenti alla qualifica nel tempo acquisita (o a non essere trasferito ad altra sede in assenza delle ragioni previste dalla norma), con la conseguenza che in presenza di simili presupposti viene generalmente ammessa la stipula di “patti contrari” alle previsioni di cui all’art. 2103 c.c.
Tuttavia, trattandosi di eccezioni ad una norma inderogabile, si riteneva che solo in presenza di un interesse del lavoratore di particolare rilievo (come, appunto, la tutela delle proprie condizioni di salute, ovvero del posto di lavoro), fossero ammissibili eccezioni al principio di cui all’art. 2103 c.c.
Di recente, invece, i giudici sono tornati a pronunciarsi sull’argomento, stabilendo addirittura che “In tema di mansioni del lavoratore, le limitazioni dello “ius variandi” introdotte dall’art. 2103 cod. civ., nel testo di cui all’art. 13 della legge n. 300 del 1970, sono dirette ad incidere su quei provvedimenti unilaterali del datore di lavoro o su quelle clausole contrattuali che prevedono il mutamento di mansioni o il trasferimento non sorretti da ragioni tecniche, organizzative e produttive e mirano ad impedire che il cambiamento di mansioni od il trasferimento siano disposti contro la volontà del lavoratore ed in suo danno; dette limitazioni, pertanto, non operano nel caso in cui – secondo un accertamento di fatto riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato – il mutamento di mansioni od il trasferimento siano stati disposti a richiesta dello stesso lavoratore, ossia in base ad un’esclusiva scelta dello stesso, pervenuto a tale unilaterale decisione senza alcuna sollecitazione, neppure indiretta, del datore di lavoro, che l’abbia invece subita” (Cass. civ. Sez. lavoro, 08 agosto 2011, n. 17095).
In sostanza, a giudizio della Suprema Corte, è ammissibile e legittimo un accordo tra le parti che preveda il trasferimento del lavoratore pur in assenza delle comprovate ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo, nonchè la sua assegnazione a mansioni inferiori ogni qual volta sia dimostrabile di aver agito su richiesta del dipendente e per un suo interesse; le uniche ipotesi in cui residuerebbe l’inderogabilità della disposizione in esame sarebbero, pertanto, rappresentate dai casi in cui la decisione sia stata assunta unilateralmente dal datore di lavoro e condivisa solo formalmente con il prestatore.

E’, tuttavia, evidente come una simile conclusione finisca per svuotare di significato l’ultimo comma dell’art. 2103 c.c., il quale si riferisce inequivocabilmente agli “accordi” tra le parti, sancendone la nullità ove contrari alle disposizioni contenute nella medesima norma, e non anche agli atti unilaterali del datore di lavoro che, al di fuori dei limiti previsti dal legislatore, rimangono – comunque – illegittimi.
Siamo, evidentemente, di fronte ad una presa di coscienza da parte dei giudici circa l’uso strumentale che è spesso stato fatto della disposizione in commento e del fatto che i tempi appaiono notevolmente mutati rispetto all’epoca (anni ’70) in cui l’art. 2103 c.c., nella sua formulazione attuale, ha visto la luce: nella sentenza da ultimo citata (Cass. n. 17095/11), infatti, il lavoratore prima aveva chiesto di essere adibito a mansioni inferiori in quanto riteneva insopportabile la pressione e le responsabilità derivanti dalle funzioni gradualmente affidategli in virtù della sua progressione in carriera e, successivamente, aveva agito per ottenere l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento ed il conseguente risarcimento dei danni derivanti dal demansionamento.
Allo stato, il lavoratore dispone di molte più tutele e strumenti qualificati per ottenere protezione contro gli eventuali abusi del datore di lavoro, per cui la più recente impostazione assunta dai giudici sembra dare nuova coerenza ad una norma che rischia, altrimenti, di rappresentare un inutile vincolo quando le parti agiscano – concordemente – per la modifica della sede o delle originarie mansioni.

Resta il fatto, tuttavia, che di fronte ad un dato letterale così forte (ed esplicito), secondo cui “ogni patto contrario (in materia di mansioni inferiori e trasferimento, ndr) è nullo”, le pronunce dei giudici rimangono opzioni interpretative che non hanno forza di legge e non sono pertanto vincolanti in successivi giudizi.
Di conseguenza (per lo meno fino a quando il principio da ultimo esposto non venga recepito dalla Cassazione a Sezioni Unite) si ritiene che in caso di richiesta proveniente dal lavoratore di essere adibito a mansioni inferiori, la soluzione più sicura sia quella di procedere alla novazione del rapporto (ossia, alla risoluzione del precedente rapporto ed alla contemporanea instaurazione di uno nuovo a condizioni differenti rispetto a quelle iniziali), ferma restando – di contro – la possibilità di stipulare appositi “patti di demansionamento” ogni qualvolta una simile soluzione rappresenti l’unica alternativa alla salvaguardia del posto di lavoro del dipendente.

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