23 Ottobre 2015
Con sentenza n. 15058 del 17 luglio 2015, la Corte di Cassazione rivisita diversi principi già espressi in tema di licenziamento disciplinare, la cui applicazione tuttavia – se può essere giuridicamente comprensibile – lascia perplessi sul piano pratico e della tutela del datore di lavoro.
Nel caso di specie, la Cooperativa che gestiva un supermercato ligure licenziava alcuni dipendenti che erano stati sorpresi a consumare sul luogo di lavoro alcuni prodotti alimentari del supermercato (un succo di frutta, quattro merendine, una bevanda in bottiglia, due spremute di frutta e una vaschetta di gelato) dei quali si erano illegittimamente appropriati.
I lavoratori in questione erano stati pure condannati in sede penale per tali fatti, ma il Giudice del lavoro aveva ritenuto sproporzionato il recesso – sul presupposto della tenuità del valore degli alimenti consumati e la scarsa consapevolezza di commettere un illecito – e li aveva reintegrati in servizio, sentenza confermata anche dalla Corte d’Appello.
Ricorreva pertanto per cassazione la Cooperativa, evidenziando che:
– l’impossessamento dei beni aziendali (non solo da parte dei dipendenti in questione) costituisse fenomeno assai diffuso e tale da determinare un ingente danno;
– la scarsa consapevolezza di commettere un illecito fosse contraddetta dalla condanna in sede penale, nonché dall’avere i dipendenti posto in essere anche condotte volte ad occultare la merce sottratta e a non farsi scoprire;
– il ccnl applicato prevedeva il licenziamento per giusta causa in caso di appropriazione sul luogo di lavoro di beni aziendali.
La Suprema Corte, tuttavia, rigetta il ricorso.
Gli Ermellini, infatti – pur dando atto della astratta riconducibilità dell’appropriazione di beni aziendali al concetto di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di cui all’art. 2119 c.c., alla l. 604/66 e al ccnl applicato – evidenziano che, proprio in quanto la nozione di giusta causa è una nozione legale, la previsione della contrattazione collettiva non vincola il giudice del merito, il quale deve controllare la rispondenza del ccnl al disposto dell’art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa di recesso condotte assoggettabili solo a sanzioni conservative.
Superata tale prima verifica, prosegue la Corte, il giudice deve poi apprezzare in concreto la gravità degli addebiti, che devono integrare una grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e devono porre in dubbio la futura correttezza del comportamento del lavoratore.
Se non si supera tale duplice, stringente verifica, pertanto, il recesso risulta illegittimo, come nel caso di specie, atteso che il giudice del merito – con valutazione di fatto, sottratta al giudizio di legittimità – ha ritenuto lieve la mancanza per lo scarso valore dei beni e la disinvoltura con la quale hanno agito i dipendenti, valutata quale indice di una scarsa consapevolezza dell’illiceità della condotta posta in essere.
Neppure l’intervenuta condanna in sede penale per i fatti in questione acquista rilevanza per la Suprema Corte, che sul punto ribadisce l’autonomia dell’accertamento del giudice del lavoro, finalizzato solo alla configurabilità della mancanza quale giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso; in buona sostanza, ove anche fosse acclarata l’appropriazione illecita (come nel caso di specie) con conseguente condanna penale, ciò non determinerebbe automaticamente il licenziamento, che è sanzione autonoma e con presupposti diversi.
E ciò, conclude il Supremo Collegio, senza neppure poter far valere difformi precedenti giurisprudenziali, atteso che l’accertamento di merito del giudice deve calarsi nel singolo irripetibile contesto lavorativo e personale, di talché è possibile (ed irrilevante) che infrazioni astrattamente analoghe possano essere giudicate in modo diverso dai singoli giudici di merito, con buona pace – verrebbe da aggiungere – di ogni certezza del diritto.
Alla luce di quanto sopra, resta – quale magra consolazione – la constatazione che oggi, a seguito dell’entrata in vigore della cd. Riforma Fornero, la conseguenza pratica dell’applicazione di tale orientamento giurisprudenziale può ritenersi considerevolmente ridimensionata, atteso che, dopo la richiamata novella legislativa, la sproporzione del licenziamento non dà più luogo alla reintegra, bensì solo ad un risarcimento del danno, restando impregiudicata pertanto l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro.
Una magra consolazione, tuttavia, in quanto appare in stridente contrasto con il comune sentire l’obbligo per il datore di lavoro – derubato dal proprio dipendente – di risarcirgli pure il danno.