7 Agosto 2015
Sovente si afferma, quasi in modo apodittico, l’irrilevanza – ai fini del giudizio sul rapporto di lavoro – delle condotte poste in essere dal lavoratore al di fuori della sfera lavorativa. Tale affermazione, tuttavia, non può essere condivisa in senso assoluto e sconta, viceversa, un importante limite, legato alla valutazione circa l’incidenza dei comportamenti attuati sul vincolo fiduciario che necessariamente deve assistere sempre il rapporto di lavoro.
Recentemente, la Suprema Corte è intervenuta sulla questione con una sentenza che ribadisce, tra l’altro, proprio tale principio (Cass. n. 2550/15). Nella fattispecie, un lavoratore veniva licenziato per giusta causa, a seguito di atti di violenza sulla moglie, anch’ella socia della società.
Il dipendente ricorreva per l’accertamento dell’illegittimità del recesso, evidenziando – tra le altre censure – l’irrilevanza dei fatti oggetto della contestazione in quanto estranei all’attività lavorativa.
In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’Appello adita rigettava le doglianze del lavoratore, evidenziando come le condotte contestate non fossero solo extralavorative, essendo state poste in essere nei confronti della moglie, socia della società, confermando pertanto la legittimità dell’intimato licenziamento. Il dipendente, pertanto, ricorreva per la cassazione di tale pronuncia.
I Supremi Giudici, tuttavia – nel confermare la sentenza della corte territoriale – non solo ne fanno propria la motivazione, ma aggiungono pure, esprimendo un principio di valore generale, che l’incidenza sul rapporto di lavoro delle condotte extralavorative non potrebbe comunque essere esclusa.
Precisa al proposito la Suprema Corte, richiamando propri precedenti giurisprudenziali, che “l’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall’articolo 2105 c.c., dovendo integrarsi con gli articoli 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro e che, in tema di licenziamento per violazione dell’obbligo di fedeltà, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall’articolo 2105 c.c., ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno”.
Aggiunge, ancora, la Corte che tali norme codicistiche – richiamate anche dall’art. 2106 c.c. in tema di sanzioni disciplinari – non vanno interpretate restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si estenda a comportamenti che per la loro natura e per le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa.