19 Maggio 2022
Se il rapporto subordinato di lavoro a tempo indeterminato è la forma comune, non è però esclusiva
Con la sentenza n. 113/2022, depositata nei giorni scorsi, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’articolo 9 della legge della Regione Lazio n. 13/2018 (Legge di Stabilità regionale 2019).
L’articolo dispone(va) che “A tutela della qualità delle prestazioni erogate e del corretto rapporto tra costo del lavoro e quantificazione delle tariffe, il personale sanitario dedicato ai servizi alla persona, necessario a soddisfare gli standard organizzativi, dovrà avere con la struttura un rapporto di lavoro di dipendenza regolato dal Contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore sanitario”.
La norma era stata sottoposta al vaglio del Giudice delle leggi dal Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità della Circolare n. 775071 del 1° ottobre 2019, con cui la Regione Lazio aveva emanato le disposizioni attuative relative agli obblighi assunzionali introdotti dalla citata norma in esame, stabilendo che almeno l’80% del personale sanitario dedicato ai servizi alla persona dovesse essere in regime di lavoro dipendente.
In particolare, il Consiglio di Stato censurava la norma ritenendola violativa sia dell’art. 117 della Costituzione – in materia di riparto di competenze tra Stato e Regione – sia degli articoli 3 e 41, limitando la libertà di iniziativa economica privata senza il rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.
Ebbene, la Consulta ritiene da una parte che la Regione non abbia violato l’art. 117 Cost., perché non ha travalicato le proprie competenze in materia di tutela della salute, che ben le consentono l’introduzione di requisiti ulteriori, sul piano organizzativo, rispetto a quelli previsti dalla normativa statale di riferimento, avendo peraltro la norma censurata un contenuto ed una finalità di promozione attiva dell’occupazione; dall’altra giudica invece fondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.
Afferma infatti la Corte che le possibili limitazioni alla libertà di iniziativa economica privata devono rispondere – in un giudizio di bilanciamento con la salvaguardia dell’utilità sociale – ai principi di ragionevolezza e proporzionalità.
Ciò vuol dire che gli interventi del legislatore – come ricorda la Consulta, richiamando i suoi precedenti – pur potendo incidere sull’organizzazione dell’impresa privata, non possono perseguire l’utilità sociale con prescrizioni eccessive, tali da «condizionare le scelte imprenditoriali in grado così elevato da indurre sostanzialmente la funzionalizzazione dell’attività economica […], sacrificandone le opzioni di fondo o restringendone in rigidi confini lo spazio e l’oggetto delle stesse scelte organizzative» (sentenza n. 548 del 1990) o in maniera arbitraria e con misure palesemente incongrue.
Ebbene, la norma censurata – secondo la quale tutto il personale sanitario dedicato ai servizi alla persona, “senza né eccezioni né graduazione in relazione alle varie figure professionali e alle relative mansioni e funzioni”, deve avere un rapporto di lavoro dipendente per di più regolato da una determinata contrattazione collettiva – appare troppo generalizzata e rigida, risultando incoerente “con il fine sociale della tutela della salute e non proporzionata al suo perseguimento”.
Ciò determina, in buona sostanza, una irragionevole e sproporzionata limitazione del potere organizzativo dell’imprenditore, risultando ipotizzabili, per soddisfare il fine proposto, anche forme di collaborazioni ed altri rapporti di lavoro autonomo.
Rammenta in proposito il Giudice delle leggi che, se è pur vero che il lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la «forma comune» di rapporto di lavoro, essa tuttavia non è quella esclusiva, come invece prevede la disposizione censurata.
Senza contare poi – come puntualmente rileva la Corte – che è la stessa circolare 775071 dell’1 ottobre 2019 della Regione Lazio a dare la misura dell’esagerato rigore della norma, limitando in sede “attuativa” sia le figure professionali interessate, sia la percentuale complessiva del personale da assumere con contratto di lavoro dipendente (80%), sia ancora la contrattazione collettiva applicabile, in tal modo evidenziando il difetto di ragionevolezza e proporzionalità, rispetto al fine sociale ultimo della tutela della salute, della norma censurata.
In ragione di quanto sopra, pertanto, discende – quale monito anche per le Regioni che avessero emanato norme di analogo contenuto – l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1, l.r. Lazio 13/2018, che pertanto cessa di avere effetto, con ogni conseguente eliminazione dei limiti dalla stessa posti.
Cosa potrà fare la Regione alla luce della sentenza della Consulta
Ciò non impedirà tuttavia alla Regione, come pure rilevato dalla Consulta, di fissare – nel rispetto delle sue competenze in tema di accreditamento delle strutture sanitarie, da esercitarsi attraverso un equilibrato bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica privata e i fini sociali, in particolare quello della tutela della salute – standard organizzativi ritenuti più idonei, anche in relazione al rapporto di impiego del personale necessario per l’erogazione delle prestazioni sanitarie.
Appare evidente, pertanto, che la questione resta delicata, cosicché le strutture sanitarie accreditate sono chiamate ad un utilizzo ragionevole ed appropriato delle tipologie alternative al rapporto di lavoro dipendente, come pure ad operare politiche assunzionali assennate, al fine di non trovarsi in difficoltà laddove la Regione dovesse nuovamente intervenire in materia stabilendo requisiti restrittivi, e di garantirsi – soprattutto nell’attuale contesto di difficoltà nel reperimento di talune professionalità – maggiore attrattività delle figure professionali più ricercate.