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Riorganizzazione aziendale e condotta vessatoria

15 Giugno 2021

Con l’ordinanza n. 5472 del 26 febbraio 2021, la Suprema Corte ha fornito importanti chiarimenti sui requisiti del cd. mobbing, facendo proprio l’orientamento (ormai maggioritario) secondo cui, laddove i comportamenti del datore di lavoro sarebbero di per sé leciti ma il lavoratore ritenga che siano attuati con un intento vessatorio, è il dipendente medesimo a dover dimostrare l’esistenza di tale volontà, non potendo limitarsi a provare l’esistenza delle condotte datoriali ed il danno che ne è derivato per la sua integrità psico-fisica.

Nel caso esaminato dagli Ermellini, in particolare, un lavoratore pubblico aveva dedotto e dimostrato di essere stato, nell’ambito di una riorganizzazione aziendale, per lungo periodo sotto-utilizzato, in attesa che l’ufficio di appartenenza si dotasse delle strutture informatiche necessarie per svolgere la propria attività (e cioè quella di URP); aveva, pertanto, ritenuto che il comportamento datoriale integrasse gli estremi del mobbing.

La Corte, nel rilevare l’inesistenza nella fattispecie di un demansionamento o di uno svuotamento di mansioni (attesa la temporaneità della decisione aziendale e l’esistenza di reali motivi organizzativi), ha altresì richiamato i principi giurisprudenziali formatisi in materia di accertamento del mobbing, secondo cui, qualora (si ribadisce) i comportamenti del datore di lavoro, autonomamente considerati, siano leciti:

  • è il dipendente a dover provare, con oneri a proprio carico, l’elemento soggettivo intenzionale dell’azienda (Corte di Cassazione, sentenza 21 maggio 2018, n. 12437);
  • solamente in presenza di tale prova, il datore di lavoro è poi onerato di dimostrare dell’esatta osservanza dei propri obblighi o della non imputabilità della condotta (ex multis, Corte di Cassazione – S.U., sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533).

Applicando tali principi, la Suprema Corte ha pertanto ritenuta infondata l’azione del ricorrente evidenziando che “(…) la sottoutilizzazione, intesa come minore utilizzazione quantitativa delle professionalità messe a disposizione, in concomitanza con una fase riorganizzativa, pur prolungata” non può essere considerata in sé illegittima “ove si ravvisino sufficienti ragioni giustificative, dovendosi altrimenti pensare a misure ancora più drastiche di soppressione temporanea del posto, che certamente non va nell’interesse del lavoratore”.

Naturalmente, la Cassazione sarebbe giunta a diverse conclusioni laddove avesse ravvisato nella condotta datoriale un demansionamento vietato dalla legge.

Al proposito, si rammenta che – nell’ambito dell’impiego privato – l’art. 2103 del Codice Civile, a seguito delle modifiche introdotte dal Jobs Act, consente l’eventuale adibizione unilaterale (con atto scritto) a mansioni appartenenti ad un livello inferiore (a parità di categoria legale) solamente “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore” e, comunque, previo assolvimento dell’obbligo formativo e con mantenimento del precedente livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento (salve le voci economiche collegate a particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa).

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