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Rifiuto al trasferimento e diritto alla NASpI

3 Agosto 2023

Il diritto alla indennità di disoccupazione (cd. NASpI) sorge, normalmente, quando il rapporto di lavoro cessa a causa di una decisione del datore di lavoro che procede al licenziamento.

Esistono, però, alcune eccezioni a tale regola, per cui tale diritto compete al lavoratore anche in alcune ipotesi nelle quali lo stato di disoccupazione discende da una sua scelta, come, ad esempio, nel caso delle dimissioni rassegnate “per giusta causa”, oppure rese dalla lavoratrice madre nel c.d. “periodo tutelato”, che va dai 300 giorni prima della data presunta del parto fino al compimento del primo anno di vita del bambino.

Tra tali eccezioni rientra anche quella del rifiuto del lavoratore a trasferirsi presso una nuova sede di lavoro.

A riguardo, l’INPS – già con messaggio del 26 gennaio 2018, n. 369 – ha chiarito che, qualora sia disposto il trasferimento del lavoratore in una sede sita ad oltre 50 km dalla residenza o mediamente raggiungibile in oltre 80 minuti con i mezzi pubblici, lo stesso può dimettersi per giusta causa e ottenere la NASpI.

Secondo l’Istituto previdenziale tale trattamento va riconosciuto anche nella diversa ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto in ragione del rifiuto del lavoratore a tale trasferimento.

Anche in quest’ultimo caso, infatti, la volontà del dipendente può essere stata indotta dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro conseguenti al trasferimento ad altra sede dell’azienda distante oltre 50 km dalla sua residenza; di conseguenza, è possibile accedere alla indennità di disoccupazione anche laddove il lavoratore e il datore di lavoro concordino la cessazione del rapporto e pattuiscano la corresponsione, a favore del lavoratore, di somme a vario titolo e di qualunque importo esse siano.

Con una sentenza del 27 aprile 2023, n. 429, il Tribunale di Torino si è espresso sulla materia, in una causa incardinata da un lavoratore avverso l’INPS per avere quest’ultimo respinto l’istanza di accesso alla NASpI motivata dal suo rifiuto al trasferimento in una sede di lavoro distante oltre 50 km dalla sua residenza.

L’ente previdenziale, nel respingere la citata richiesta, aveva sostenuto che, in caso di trasferimento a più di 50 km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in più di 80 minuti con i mezzi pubblici è necessario, al fine del percepimento della NASpI, che la cessazione del rapporto avvenga per risoluzione consensuale ,mentre nel diverso caso delle dimissioni il dipendente è tenuto a provare la ricorrenza di una giusta causa e, quindi, che il trasferimento non sia sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive (presupposto che, nel caso di specie, non era stato dimostrato).

Ebbene, il giudice designato ha respinto la tesi difensiva della sede locale dell’INPS, precisando che, nel caso in cui il trasferimento presenti i presupposti sopra descritti, la scelta del lavoratore di dimettersi, al pari di quella di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro, deve ritenersi imputabile a terzi e non già volontaria, indipendentemente dalla legittimità o meno della scelta organizzativa datoriale, con diritto del dipendente a percepire la NASpI.

Precisamente, secondo la citata pronunzia, non avrebbe senso limitare il riconoscimento della NASpI alla sola ipotesi della risoluzione consensuale in quanto quest’ultima «è sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, non essendoci alcuna differenza concettuale tra la dichiarazione di volontà con cui il lavoratore pone unilateralmente termine al rapporto di lavoro e la dichiarazione di volontà che confluisce, unitamente ad analoga dichiarazione del datore di lavoro, nell’accordo oggetto di risoluzione consensuale».

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