1 Settembre 2023
La recente circolare n. 25 del 18 agosto 2023 dell’Agenzia delle Entrate fornisce un ampio quadro interpretativo sulla problematica dell’imponibilità fiscale dei redditi degli smart worker all’estero, questione che, a seguito dell’epidemia Covid19, si è fatta quantomai impellente, tanto da essere oggetto di numerosi interpelli nel corso degli ultimi anni.
L’Agenzia ha dapprima esaminato il caso in cui i due paesi (quello del datore di lavoro e quello di esecuzione della prestazione) non siano legati da convenzioni contro le doppie imposizioni.
In tale evenienza, trova piena applicazione l’art. 2 del TUIR, secondo cui il lavoratore è fiscalmente residente in Italia se:
Se ricorre almeno una delle suddette condizioni, i redditi del lavoratore sono tassati in Italia, anche se prodotti all’estero (cd. worldwide taxation principle). In caso contrario, il dipendente risulterà residente all’estero e saranno assoggettati ad imposizione in Italia solo i redditi da lavoro dipendente o autonomo prodotti nel territorio dello Stato (art. 23 del TUIR).
Sulla base di tali criteri, pertanto, secondo la circolare devono essere tassati in Italia i redditi di un cittadino straniero, non iscritto nelle anagrafi della popolazione residente, che lavora dall’Italia in smart working per un datore di lavoro estero, permanendo per la maggior parte dell’anno solare presso un’abitazione ubicata nel nostro Stato unitamente al coniuge e ai figli, così come quelli di una cittadina italiana che si è trasferita all’estero, dove svolge un’attività lavorativa in smart working, ma ha mantenuto l’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta.
L’eventuale esistenza di una convenzione contro le doppie imposizioni redatta sulla base del Modello OCSE, non cambia di per sé tali regole di determinazione della residenza fiscale.
In tale ipotesi, però, se sulla base delle disposizioni nazionali vigenti nei due Paesi il lavoratore risulta residente in entrambi (ad esempio, perché acquisisce la residenza del Paese in cui è contrattualmente fissata la propria sede lavorativa, ma mantiene la dimora abituale o il domicilio in Italia), le convenzioni prevedono specifiche regole per l’individuazione di una sola residenza fiscale (c.d. tie breaker rules), facendo prevalere, in particolare, il criterio dell’abitazione permanente cui seguono, in via subordinata, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità del contribuente.
Una volta stabilito lo Stato di residenza fiscale, le convenzioni (art. 15) prevedono:
i. il beneficiario dei redditi di lavoro dipendente soggiorna nello Stato della fonte per periodi che non oltrepassano in totale i 183 giorni nell’anno fiscale considerato;
ii. le remunerazioni sono pagate da o a nome di un datore di lavoro che non è residente nello Stato della fonte;
iii. l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nello Stato della fonte.
Infine, si segnala che, secondo il parere fornito dall’Amministrazione finanziaria, a prescindere dall’applicazione o meno di una convenzione contro le doppie imposizioni, nel caso del lavoro da remoto, per Stato della fonte si intende quello presso cui il lavoratore svolge le proprie prestazioni di lavoro agile, a prescindere dalla formale sede di lavoro, in quanto “il lavoro dipendente si considera svolto nel luogo in cui il lavoratore è fisicamente presente quando svolge la prestazione per cui è remunerato, indipendentemente dalla circostanza che la manifestazione di tale lavoro abbia effetti nell’altro Stato contraente”.
Tale principio, infatti, trova riscontro sia nel diritto nazionale italiano (l’art. 23 del TUIR considera prodotti in Italia “i redditi di lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato”), sia nel paragrafo 1 del Commentario all’articolo 15 del Modello OCSE.