28 Ottobre 2016
Una tematica da sempre molto spinosa, e gravida di conseguenze, è quella della formazione di usi aziendali in conseguenza del reiterarsi costante di comportamenti datoriali più favorevoli ai lavoratori.
Ed invero, non di rado accade che un datore di lavoro – trovandosi nella necessità di revocare o ridurre benefici a suo tempo concessi ai lavoratori in virtù del buon andamento dell’attività e/o di situazioni ormai datate – si veda eccepire l’esistenza di un uso aziendale in merito, immodificabile senza il consenso dei lavoratori stessi.
Al proposito, in effetti, secondo la più recente giurisprudenza della Suprema Corte, la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti (ovvero nei confronti di ristrette e omogenee categorie di essi) integra, di per sé, gli estremi dell’uso aziendale e, come tale, diventa vincolante per il datore di lavoro, ancorché, ab origine, rappresentasse una mera liberalità (Cass., S.U., 26107/2007).
La giurisprudenza tradizionale della Cassazione motivava tale conclusione ricorrendo all’istituto delle c.d. clausole d’uso ex art. 1340 c.c., vale a dire ritenendo che la reiterazione del comportamento datoriale si inserisse nei singoli contratti di lavoro come una nuova clausola individuale (Cass. 7774/1998) e che, quindi, i benefici riconosciuti ai lavoratori per effetto degli usi in questione non fossero più revocabili unilateralmente da parte del datore di lavoro (Cass. 9663/1998; Cass., S.U., 6690/1996; Cass. 3101/1995).
La più recente giurisprudenza, viceversa, ha ricostruito la fattispecie degli usi aziendali assimilandola a quella dei contratti collettivi; è stato ritenuto, infatti, che i comportamenti reiterati del datore di lavoro – il quale riconosca spontaneamente e in via continuativa un trattamento non previsto né dalla contrattazione collettiva né dai contratti individuali di lavoro – vadano “inclusi tra le c.d. fonti sociali eteronome del rapporto di lavoro, tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi aziendali sia i regolamenti aziendali, essendo diretti a conseguire una disciplina uniforme dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori dell’azienda” (Cass. 13816/2008).
Anche tale orientamento, tuttavia, continua a negare la revocabilità unilaterale degli usi aziendali, atteso che essi “possono essere modificati unilateralmente solamente in melius”, mentre una eventuale deroga peggiorativa può avvenire solamente ad opera di “fonti collettive sopraordinate, come i contratti collettivi anche aziendali, secondo le regole in materia di successione degli stessi” (Cass. 13816/2008).
Detta conclusione sconta tutti i limiti derivanti dalla concreta difficoltà (quasi una vera e propria impossibilità) che le OO.SS. concordino circa l’eliminazione di un trattamento migliorativo in favore dei lavoratori, di talché la Suprema Corte ha precisato che – sebbene “in presenza di un diritto acquisito per (…) uso aziendale, sullo stesso non potrebbe incidere unilateralmente il datore di lavoro” – tuttavia “l’uso presuppone la identità della situazione regolata”, con la conseguenza che, laddove venga meno il presupposto stesso dei benefici riconosciuti, il datore di lavoro è legittimato a revocare quanto in precedenza concesso (cfr. Cass., n. 18593/2009).
In buona sostanza, il Supremo Collegio pare applicare il principio della c.d. presupposizione, che si configura quando la situazione fattuale, anche se non enunciata nell’articolato negoziale, costituisce presupposto imprescindibile della volontà delle parti, cosicché il mutamento di quella situazione per circostanze sopravvenute altera radicalmente l’assetto di interessi in forza del quale era stata convenuta l’operazione negoziale e rende, pertanto, possibile lo scioglimento del vincolo contrattuale.
Così ricostruita l’evoluzione giurisprudenziale in materia di usi aziendali, deve tuttavia operarsi, a parere di chi scrive, una distinzione in merito all’aspetto genetico dell’uso, in relazione al quale appare evidente come debba distinguersi tra condotte meramente fattuali – in ordine alle quali, in assenza di un’espressa volontà contraria, può dirsi che la loro costante ripetizione nel tempo si pone a dimostrazione oggettiva di un animus volto a rendere stabile il comportamento lungamente e invariabilmente ripetuto nel tempo – dai provvedimenti scritti nei quali espressamente viene incisa la volontà datoriale circa la temporaneità di un comportamento, in merito ai quali tale oggettività non può sussistere, attesa l’esistenza di un’espressa volontà circa la delimitazione temporale del comportamento tenuto, a nulla rilevando che esso si sia ripetuto nel tempo.
Diversamente opinando, si dovrebbe sostenere che il datore di lavoro – soddisfatto del buon esito dell’attività e in un dato momento in condizioni economiche tali che gli consentano di erogare un premio – debba viceversa astenersi dal farlo in maniera reiterata, anche se ne sussista la possibilità, per non incorrere nel rischio che ciò determini l’insorgere di un uso aziendale.
Di tale opinione sembra essere anche la Corte d’Appello di Milano che in una recente pronuncia (sent. n. 743/16) – relativa ad una causa patrocinata dallo scrivente studio – ha ribaltato gli esiti di due giudizi che avevano visto in primo grado riconoscere l’esistenza di un uso aziendale in ordine ad un premio straordinario di reparto, per diverso tempo erogato da una Struttura sanitaria ai lavoratori addetti ad un reparto in forza di distinti provvedimenti scritti che annualmente confermavano tale trattamento migliorativo.
Ebbene, la Corte meneghina – dopo aver evidenziato che “l’emolumento di cui si discute non è stato corrisposto dal datore di lavoro esclusivamente di fatto, ma a seguito di deliberazioni annuali del consiglio di amministrazione della società…il premio in oggetto è stato qualificato in tutte come “straordinario” e ad esso è stata sempre posta una precisa scadenza…” – ha conseguentemente concluso nel senso che “tali elementi tolgono valore, al fine di integrare una prassi aziendale, al dato fattuale della mera reiterazione della corresponsione del premio…”.
Ad ulteriore dimostrazione di quanto sopra, si rileva inoltre – con valutazione condivisa dalla Corte d’Appello milanese – come, in presenza di atti scritti contenenti un’esplicita indicazione della straordinarietà e temporaneità di un determinato beneficio, difetterebbe un requisito indispensabile al fine di configurare l’uso aziendale, vale a dire lo specifico intento negoziale di regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo, elemento viceversa necessario secondo il costante orientamento della Suprema Corte (ex plurimis, Cass. 15489/07) ed in assenza del quale la mera reiterazione di comportamenti spontanei e migliorativi applicati alla generalità dei lavoratori o ad una parte omogenea di essi non è sufficiente ad integrare l’uso aziendale.
Alla luce di tutte le considerazioni sopra svolte – e nonostante la pronuncia commentata – il tema dei trattamenti di miglior favore ai dipendenti o a parte di essi resta di certo una questione che richiede un’attenta gestione sin dal suo sorgere, al fine di evitare le problematiche sopra evidenziate.