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Quella terribile abitudine di cercare i colpevoli e non le soluzioni

12 Maggio 2020

La pandemia in corso e gli eventi cui abbiamo assistito negli ultimi mesi hanno stravolto la vita quotidiana di tutti (in Italia e nel mondo), e non solo per le misure decise dalle autorità per limitare il contagio, ma proprio a causa della diffusione del virus e della paura (ragionevole) che essa provoca.

Ad esempio, a livello micro, è ormai frequentissimo notare che, transitando per strada (per ragioni ammesse dalla normativa), le altre persone si allontanano, così da assicurare il distanziamento sociale. Rientrando a lavoro, inoltre, in questi giorni, nessuno (spero) ha abbracciato i colleghi che non vedeva dall’inizio del lock down, sebbene dopo tante settimane fosse un gesto più che naturale.

Questo è giusto e, anzi, è doveroso!

Non costituisce un atto di sospetto o di diffidenza; è evidente, infatti, che il COVID-19 non dipende dalla persona che ne è affetta, essendone anch’essa involontaria vittima.

A livello macro, tuttavia, queste considerazioni non valgono. È, infatti, dall’inizio dell’epidemia che assistiamo non solo alla (sacrosanta) “mappatura” dei luoghi più pericolosi (al fine di individuare le necessarie misure sanitarie), ma proprio alla ricerca dei colpevoli.

Con tale affermazione, non mi riferisco solo al caso delle RSA (in merito al quale rinvio all’articolo di Mauro Mattiacci, pubblicato su Quotidianosanità.it il 26 aprile scorso), ma anche all’atteggiamento che molti attori (istituzionali e non) hanno assunto nei confronti di tutti i datori di lavoro, spesso individuati (soprattutto se si tratta di strutture sanitarie) quali colpevoli dell’epidemia.

Sia chiaro, con ciò non intendo minimamente sminuire l’importanza della prevenzione e delle misure di sicurezza, né criticare la (lodevole) iniziativa del Governo di condividere le stesse con le Parti Sociali.

Certo, occorrerebbe però chiarire come bisogna comportarsi laddove i necessari DPI, previsti dalla normativa applicabile, non siano disponibili sul mercato.

Nel settore sanitario, in particolare, stiamo infatti assistendo ad indicazioni molto diversificate da parte delle singole Regioni, le quali, spesso, non disponendo degli strumenti per risolvere il problema, non offrono chiare soluzioni normative, lasciando le strutture nell’incertezza e, quindi, esponendole al rischio di essere additate quali responsabili del diffondersi le COVID-19.

In tale quadro generale, l’INAIL – dapprima con nota del 17 marzo 2020 e, poi, con la circolare n. 13 del 3 aprile 2020 – ed il legislatore, sono intervenuti al fine di qualificare il contagio da Coronavirus (laddove avvenuto in occasione di lavoro) come infortunio sul lavoro.

Con riferimento agli operatori sanitari, inoltre, l’INAIL, con la circolare sopra citata, ha addirittura “istituito” una presunzione semplice, cosicché qualora si riscontri la positività al virus, non è il dipendente a dover dimostrare il contagio sul luogo di lavoro, ma è l’INAIL (o il datore di lavoro) a dover eventualmente provare (con una sorta di probatio diabolica) che la malattia è sopraggiunta per cause extra-lavorative.

Ovviamente, dalla decisione dell’INAIL non discendono, in automatico, responsabilità per i datori di lavoro: la nozione di occasione di lavoro, infatti, è cosa ben diversa dal concetto di colpa o dolo, cosicché si può avere (come spesso accade) un infortunio sul lavoro anche in assenza della benché minima responsabilità da parte del datore di lavoro.

Sul piano comunicativo, tuttavia, la questione è ben diversa: affermando che la causa del contagio è sempre lavorativa (a prescindere da una prova concreta a tal riguardo), si apre la strada ad una sorta di automatismo che, a fronte della positività di un operatore, spingerà quest’ultimo a dare la colpa alla struttura e, quindi, a promuovere molteplici controversie (non solo civili, ma anche penali) al fine di accertare l’eventuale omissione di un qualsiasi dispositivo antinfortunistico.

Se poi, come sta avvenendo, tali DPI non sono disponibili sul mercato in misura sufficiente, tanto da spingere le Regioni ad adottare appositi provvedimenti a tal riguardo, è chiaro che il datore di lavoro non ha più alcuno strumento per difendersi.

Certo non è giusto far lavorare gli operatori senza disporre della dotazione ottimale al fine di evitare il contagio; tuttavia, individuare il colpevole in un soggetto che, in realtà, non poteva far nulla per evitare l’eventuale disgrazia, è parimenti disdicevole, oltreché terribilmente ipocrita.

Sarebbe il caso che il legislatore intervenisse immediatamente al fine di definire procedure di sicurezza chiare su tutto il territorio nazionale, nonché di demandare alle istituzioni regionali il compito di verificare ed attestare l’effettiva fattibilità delle stesse; la legge, inoltre, dovrebbe stabilire i comportamenti da attuare in caso di impossibilità di implementare le misure previste, stabilendo altresì, per tale ipotesi, un idoneo esonero di responsabilità per il datore di lavoro.

Bisognerebbe, in altre parole, ricercare una soluzione di contemperamento, utilizzando strumenti ad hoc, impegnando a tal fine la spesa pubblica e tenendo conto della circostanza che in situazioni di pandemia, quale è quella attuale, salve situazioni eccezionali, non è possibile individuare un colpevole del contagio.

Non sembra, di contro, che l’attuale sistema normativo, che impone obblighi astratti senza curarsi dell’effettiva possibilità di adempierli, sia adeguato per affrontare l’emergenza in atto.

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