12 Febbraio 2016
In un momento storico di grandi riforme in ambito di diritto del lavoro, CGIL CISL e UIL propongono, congiuntamente, un diverso assetto del sistema delle relazioni industriali che – oltre ad essere sicuramente innovativo (per il sol fatto di provenire direttamente da tali associazioni) – ha suscitato molteplici commenti, piuttosto in contrasto tra di loro.
La novità più rilevante riguarda la proposta di un modello decentrato di contrattazione collettiva (con conseguente allocazione differente delle risorse disponibili) che va contro corrente rispetto alla storica tendenza da parte delle confederazioni di centralizzazione delle risorse.
Per contro, il punto di partenza della proposta di CGIL CISL e UIL tende a superare la più grande empasse degli ultimi 60 anni: attuare la seconda parte dell’art. 39 Cost. in modo tale da stipulare contratti collettivi nazionali validi erga omnes, così da superare, una volta per tutte, le numerose questioni in merito all’efficacia soggettiva del contratto collettivo nazionale.
Ciò pare determinare una contraddizione logica.
Eppure non sfugge alle OO.SS. come un ampio incremento delle materie da demandare al più alto livello di contrattazione conduca inesorabilmente ad una maggiore distanza dalle realtà che si intendono regolare; per questo motivo il testo parla di una riconsiderazione qualitativa e quantitativa dei vari ccnl, i quali dovrebbero risultare rafforzati nella propria funzione di governance delle relazioni industriali, divenendo di fatto accordi quadro destinati ad essere applicati necessariamente assieme ai contratti di secondo livello.
Alla contrattazione nazionale sarebbe comunque riservata l’individuazione degli aumenti salariali, i quali da un lato dovrebbero essere svincolati dai tassi di inflazione (realizzandosi così un superamento delle regole previgenti) e dall’altro andrebbero a costituire una sorta di salario minimo legale (istituto storicamente osteggiato dalle associazioni sindacali).
La centralità della proposta sembra quindi risiedere proprio nella disponibilità ad implementare i contratti collettivi di secondo livello: in tale prospettiva i sindacati offrono per la prima volta inequivocabilmente la loro disponibilità a confrontarsi in realtà territoriali ed aziendali, ambiti storicamente più ostici per le associazioni.
Secondo il progetto sindacale, alla contrattazione di secondo livello devono essere affidati il welfare aziendale (argomento divenuto fondamentale alla luce dei recenti provvedimenti di legge che tendono ad escluderlo dal reddito imponibile) e i fondi di previdenza complementare (i quali dovranno quindi divenire parte della contrattazione evitando che sia assecondata la tendenza alla diffusione di concessioni unilaterali).
Il testo in esame si è occupato anche della politica salariale sulla produttività, proponendo (in aggiunta ai normali incrementi tabellari) una maggiore partecipazione agli utili dell’azienda attraverso bonus da erogare ai lavoratori; effettivamente questa soluzione consentirebbe alle aziende più virtuose di attribuire retribuzioni più elevate (e ciò costituirebbe senza dubbio un incentivo per i lavoratori a fornire una prestazione di qualità più alta), ma è altresì vero che ciò porterebbe ad un forte incremento del costo del lavoro per le aziende, con conseguente tendenza a lasciare inalterate le retribuzioni tabellari per aumentare la percentuale di retribuzione inerente agli utili e quindi una condivisione, per certi versi, del rischio di impresa in capo al lavoratore.
Le prime valutazioni di Confindustria sulla proposta dei sindacati sono negative; pur considerando infatti la necessità di riformare la contrattazione collettiva, di introdurre legami più stringenti tra salari e produttività, e di allocare gran parte delle risorse alla contrattazione di secondo livello, l’unione degli industriali non ritiene accettabile il progetto dei sindacati di individuare aumenti salariali superiori ai tassi di inflazione (il che, sommato ai bonus sugli utili, porterebbe ad un onere troppo elevato per le imprese) e comunque valuta la proposta abbondantemente superata dai contratti collettivi già vigenti.
Le OO.SS. si sono già premurate di controreplicare, evidenziando come le vecchie regole siano state spesso utilizzate in passato per avviare competizioni a ribasso sulla contrattazione, pur con la consapevolezza che un aumento dell’onerosità della contrattazione collettiva potrebbe rendere più complessa e con minori margini di manovra la trattativa sulla contrattazione di secondo livello.
Il confronto è aperto, e il Governo, in attesa di ulteriori sviluppi, ha già annunciato l’intenzione di intervenire con un provvedimento di legge, qualora le parti sociali non dovessero raggiungere un’intesa.
Tuttavia già oggi è possibile rilevare il forte collegamento ideologico tra la più ampia autonomia salariale che si intenderebbe riconoscere alla contrattazione di secondo livello (quindi territoriale) ed il vecchio sistema di gabbie salariali in vigore fino all’inizio degli anni 70, abolito dopo numerose lotte operaie da parte delle stesse confederazioni sindacali; per contro è innegabile che un simile modello offrirebbe l’opportunità alle aziende più virtuose di aumentare i livelli retributivi e allo stesso tempo, frenerebbe il fenomeno di trasmigrazione verso una contrattazione nazionale più favorevole per le aziende in crisi.