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Prolungare arbitrariamente la pausa pranzo può costar caro.

1 Ottobre 2019

L’arbitrario prolungamento da parte del dipendente della propria pausa pranzo è una mancanza grave, talvolta anche maggiore persino di un’assenza ingiustificata dal servizio.

È questo il principio che si desume dalla recente sentenza della Cassazione del 22 agosto u.s. n. 21628.

La vicenda presa in esame dagli Ermellini, difatti, trae origine da un licenziamento per giusta causa irrogato ad un portalettere che si era, in due occasioni, intrattenuto assieme ad altri dipendenti ben oltre l’orario previsto per il pranzo, lasciando incustodita la posta da consegnare, nonché il mezzo aziendale in dotazione.

Impugnato il provvedimento, l’irrogato licenziamento trovava conferma sia in primo grado sia, successivamente, dinanzi alla Corte di Appello.

Adita la Cassazione, il ricorrente articolava i propri motivi di ricorso deducendo come la Corte territoriale male avesse operato rifiutandosi di sussumere i fatti ascritti in una più generica ipotesi di negligenza, prevista e sanzionata dal ccnl applicato con la sola sanzione conservativa della sospensione pari a dieci giorni.

Di diverso avviso sul punto la stessa Cassazione, secondo la quale la Corte di merito avrebbe agito correttamente respingendo tale motivo di reclamo e ritenendo il comportamento addebitato connotato da maggiore gravità rispetto alla generica negligenza paventata dal ricorrente atteso che lo stesso, non solo sarebbe stato “…posto in essere in essere assieme ad altri dipendenti”, ma anche “notato dalla collettività” tanto che risultava essere stato addirittura avanzato un esposto contro il mal funzionamento del servizio da parte degli abitanti di tutta la zona interessata dall’attività del portalettere in questione.

Sempre secondo la Cassazione, inoltre, ben avrebbe operato la Corte di Appello respingendo anche l’ulteriore assunto del ricorrente secondo il quale la mancanza contestata sarebbe stata da considerare “meno grave” di un’assenza ingiustificata dal servizio (ipotesi anch’essa sanzionata con la sola sospensione pari a dieci giorni). Ebbene, in merito a tale specifica censura correttamente la Corte di merito avrebbe rilevato che, “l’assenza ingiustificata dal servizio di un dipendente risulta infatti meno grave della condotta di colui che, invece, pur risultando regolarmente in servizio sceglie di intrattenersi con altri oltre l’orario consentito, senza aver svolto interamente i compiti affidatigli e connaturati alle proprie mansioni”.

Sempre secondo il ragionamento seguito dai giudici della seconda fase, pertanto, sarebbe da escludere che “la condotta di chi apertamente e dichiaratamente non si reca al lavoro, con comportamento immediatamente percepibile dal datore di lavoro, sia omologabile a quella di chi, pur risultando in servizio, si sottrae all’adempimento della prestazione, confidando in un’apparenza di regolarità lavorativa che si svolge al di fuori del controllo diretto datoriale e, anzi, non portando a termine il lavoro dovuto”. In buona sostanza, ciò che i Giudici hanno enfatizzato attraverso tale condivisibile ragionamento è il maggior danno che la presenza in servizio in modo inoperoso e negligente di un dipendente è potenzialmente in grado di arrecare all’andamento e all’organizzazione dell’attività lavorativa rispetto alla totale assenza dello stesso (che, una volta appresa, permette pur sempre al datore di lavoro di predisporre la sua sostituzione o una differente organizzazione del lavoro).

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