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Più risorse per un sistema sanitario di qualità

26 Ottobre 2023

Pubblichiamo di seguito l’intervento di Giovanni Costantino al convegno “Essenziali per costituzione. Il futuro del welfare e il valore del lavoro pubblico e privato nei servizi pubblici”, organizzato dalla FP CGIL lo scorso 25 ottobre.

È molto forte il rischio di un depauperamento del settore del welfare nel nostro Paese, causato da scarsi investimenti e da una certa mancanza di visione.

È un tema che ovviamente riguarda anche l’ARIS (così come le altre associazioni di categoria del settore della sanità privata accreditata), preoccupata per i dati diffusi dall’Esecutivo con la NADEF 2023.

Condivido in pieno il giudizio espresso dalla segretaria Serena Sorrentino, secondo cui portare il Fondo Sanitario Nazionale dal 6,7% sul Pil del 2022 al 6,1% del 2026 è “la cronaca di una morte annunciata per il Servizio Sanitario Nazionale”, poiché il PNRR non potrà compensare le mancate risposte ordinarie del SSN.

Staremo, quindi, a vedere cosa succederà con la legge di Bilancio 2024, anche se temo che le misure anticipate negli ultimi giorni, e riportate nelle bozze in circolazione, siano insufficienti, oltreché orientate solo all’attività ospedaliera e non agli altri ambiti di welfare.

Credo che nell’attuale fase storica, caratterizzata da un incremento significativo del costo della vita dovuto all’inflazione, sia fondamentale potenziare i servizi forniti dal SSN, per presidiare adeguatamente il diritto alla salute garantito dall’art. 32 della Costituzione.

Anche la sanità accreditata può, e deve, fornire il proprio indispensabile contributo.

È fuorviante vedere le diverse componenti del SSN, privata e pubblica, in contrapposizione; entrambe, infatti, collaborano, seppur nei diversi regimi che le caratterizzano, alla soddisfazione del fabbisogno sanitario del Paese: più corretto, quindi, parlare di un settore pubblico allargato, che vede operatori privati e pubblici insieme per la soddisfazione del bisogno di welfare.

Basti pensare che, secondo l’Annuario Statistico del SSN, nel 2021, ben il 48,6% delle strutture ospedaliere aveva una natura giuridica di tipo privatistico. La percentuale sale notevolmente se si considera l’assistenza territoriale ai disabili ed agli anziani, e cioè le fasce più bisognose, che più risentono dell’attuale contingenza economica.

Non credo che questo sia un errore, ma piuttosto rappresenta un’applicazione pratica del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 117 della Costituzione e dai documenti fondativi dell’Unione Europea.

Parlare di sussidiarietà e di libertà di iniziativa economica (anch’essa tutelata dalla Costituzione, all’art. 41) non vuol dire, ovviamente, deregolamentazione.

È compito dello Stato (a livello di principi fondamentali) e delle Regioni (più analiticamente) disciplinare le modalità di svolgimento delle attività sanitarie, prevedendo – secondo la ratio del d.lgs. 502/1992 – uguali standard per le strutture pubbliche e per quelle private accreditate, così da assicurare un pari livello di qualità assistenziale.

Aggiungo, inoltre, che gli standard dovrebbero essere sempre aggiornati, in quanto i modelli assistenziali cambiano e la regolamentazione deve riconoscere ed accompagnare i percorsi maggiormente virtuosi, in un’ottica di miglioramento continuo.

Sono dell’idea che la definizione di regole chiare, eventualmente integrate anche dalla contrattazione collettiva ridurrebbero alcune sacche di concorrenza al ribasso che traggono spesso la loro forza da vuoti normativi.

Allo stesso modo, credo che il Legislatore dovrebbe adottare ulteriori e migliori misure per evitare il proliferare dei contratti “pirata” ed i fenomeni di dumping contrattuale, rafforzando i sistemi che premiano l’applicazione dei ccnl più rappresentativi.

Non c’è dubbio, a questo riguardo, che sarebbe assolutamente positivo avviare un percorso che porti a ridurre il numero di ccnl, espellendo quelli di dubbia rappresentatività.

Tutto questo, e così torno all’incipit del mio intervento, richiede però che il SSN, nelle sue diverse componenti (pubblica e privata) sia dotata di idonee risorse economiche.

Ed invece, dobbiamo registrare che negli ultimi decenni poco è stato fatto a tal fine.

Mi riferisco, in questo momento, alla sanità privata accreditata, che è tuttora in attesa della (più volte promessa) riforma dei tetti spesa, introdotti dall’art. 15 del d.l. n. 95/2012 e riguardanti l’acquisto di prestazioni sanitarie da soggetti accreditati per l’assistenza specialistica ambulatoriale e per l’assistenza ospedaliera.

I limiti introdotti dalla spending Review del 2012, seppur attenuati dalla l. 124/2019, rimangono tuttora validi.

Non è bastato che il Patto per la salute 2019-2021, approvato il 18 dicembre 2019, abbia individuato la necessità di una modifica.

L’impegno politico, infatti, è stato sinora disatteso, anche a causa dell’emergenza Covid-19, e, ciò nonostante, l’ordine del giorno, accolto dal Governo il 23 dicembre 2022, che impegna l’Esecutivo «a eliminare il tetto della spesa per le offerte dell’ospedalità privata in regime convenzionato al fine di garantire migliori servizi e una più razionale gestione della sanità pubblica».

È urgente che il Legislatore provveda alla effettiva rimozione dei tetti previsti dal Governo Monti, al fine di non compromettere la sostenibilità delle strutture – che si trovano oggi a sostenere un inaudito incremento degli oneri energetici, pari, secondo alcune rilevazioni, al 300% per l’energia elettrica ed al 470% per il gas – con contributi a carico dello Stato assolutamente insufficienti.

Come dicevo prima, non credo che le misure sinora circolate sui canali d’informazione sarebbero sufficienti a tale scopo: limitarsi ad un incremento dei tetti di spesa dell’1% per il 2024 (e del 3% dal 2025 e del 4% dal 2026) sarebbe davvero troppo poco e dimenticherebbe del tutto il settore dell’assistenza territoriale e dei servizi sociosanitari e socioassistenziali.

Le associazioni datoriali e le organizzazioni sindacali sono concordi nel ritenere indifferibili quei provvedimenti che portino a dotare la sanità tutta (pubblica e accreditata) di risorse idonee a soddisfare i bisogni dei cittadini, soprattutto dei più deboli.

Sia detto con estrema chiarezza, a scanso di fraintendimenti: Aris intende rinnovare i contratti collettivi, riconoscendo in pieno la necessità di valorizzare personale che svolge un’attività complessa e così significativa.

Occorre però evidenziare che molti dei lavoratori impiegati nelle strutture che applicano il ccnl Aris CdR e RSA sono in servizio da prima del 2013 e, quindi, tuttora percepiscono uno stipendio superiore a quello corrisposto ai dipendenti dei ccnl già rinnovati, grazie ad un superminimo collettivo non assorbibile previsto dal ccnl.

È fin troppo evidente che le Strutture accreditate, a parità di introiti (che, anzi, hanno subito riduzioni negli anni a causa dei diversi provvedimenti susseguitisi nel tempo per il contenimento della spesa pubblica), non siano in grado di incrementare indefinitivamente il costo del personale, senza pregiudicare le proprie condizioni di equilibrio economico e finanziario.

A dire il vero, sarei disonesto se affermassi di non aver visto esempi positivi.

Mi riferisco a quanto avvenuto in occasione del rinnovo del ccnl Aris-Aiop 2016-2018, quando la definizione di valori economici equivalenti tra sanità privata e pubblica è stata resa possibile dall’impegno delle Regioni di farsi carico del 50% degli oneri contrattuali.

Nonostante la scarsa attuazione di tale impegno, l’assunzione parziale degli oneri da parte del SSN ha costituito un punto di svolta epocale.

Per la prima volta, infatti – sebbene ciò dovrebbe costituire la regola – il SSN si è impegnato a contribuire al pagamento degli oneri del personale operante in regime di accreditamento.

Credo che questa sia la via da seguire, non solo quando è in gioco la fondamentale esigenza di rinnovare i contratti di lavoro a condizioni adeguate, ma anche in un’ottica di corretta valorizzazione delle prestazioni e delle progettualità.

Le istituzioni private non sono un mero fornitore del SSN, ma cooperano fattivamente alla sua costituzione e funzionamento, e lo fanno – quantomeno per la componente religiosa – sin dalle sue origini.

È giusto, quindi, chiedergli il rispetto degli stessi standard vigenti per le strutture pubbliche, così come definire regole idonee a garantire la massima qualità possibile delle cure.

Per far ciò, tuttavia, è necessario essere concreti e dotare anche la sanità accreditata delle risorse che da molto tempo chiede.

Non voglio credere che il futuro consista in un abbattimento dei costi tramite una riduzione della qualità dell’assistenza. Questo sarebbe squalificante per le strutture, prima ancora che per i professionisti che collaborano con impegno e sacrificio.

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