24 Maggio 2013
La vicenda in esame trae origine dal riconoscimento della legittimità di un licenziamento per giusta causa di un dipendente il quale, arbitrariamente, aveva deciso di non recarsi al lavoro pur essendo stato ritenuto idoneo a riprendere il servizio dal medico di controllo, omettendo, tra l’altro, di comunicare tempestivamente l’asserito protrarsi della malattia al proprio datore di lavoro.
In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto corretto l’operato dei giudici di prime cure i quali hanno giustamente interpretato le disposizioni contrattuali che prevedevano, oltre all’obbligo di preavvertire tempestivamente e mediante ogni mezzo idoneo il proprio datore della situazione impeditiva, il sollecito invio – tramite fax – del certificato medico completo di indirizzo in grado di consentire la immediata effettuazione dei controlli sull’effettiva consistenza dello stato di malattia.
Ad avviso dei supremi giudici, la Corte territoriale aveva giustamente posto in evidenza che dal chiaro tenore delle disposizioni contrattuali non poteva revocarsi in dubbio che l’assenza per malattia, per non essere arbitraria, oltre ad essere tempestivamente comunicata, doveva essere giustificata con l’invio di adeguata certificazione medica.
Secondo la Cassazione, pertanto, la legittimità del recesso sarebbe discesa proprio dall’omesso invio di detta certificazione che di fatto, aveva impedito di verificare lo stato della malattia, nonché la sua concreta idoneità a giustificare l’assenza della lavoratrice.
Ad ogni buon conto, la fattispecie in esame consente di trarre utili spunti di riflessione in merito alle conseguenze derivanti dal mancato o ritardato invio della opportuna certificazione medica comprovante lo stato di malattia del lavoratore, nonché dello specifico contenuto che la stessa debba possedere per assolvere compiutamente la funzione per la quale venga rilasciata.
Per ciò che concerne le conseguenze derivanti dal semplice ritardo dell’invio della certificazione medica, ad esempio, si evidenzia come – a parere della costante giurisprudenza di legittimità – queste consistano nella sola perdita della indennità (in tutto o limitatamente ai giorni di ritardo), salvo che il lavoratore non provi rigorosamente che l’avvenuto ritardo sia dipeso da causa a lui non imputabile.
Posto quanto premesso, appare utile una breve disamina delle disposizioni contenute nei contratti collettivi della sanità privata, al fine di poter meglio comprendere i possibili riflessi di tali indicazioni giurisprudenziali sulla disciplina regolata dagli stessi in materia.
In tema di trattamento economico di malattia ed infortunio, è espressamente previsto dalle disposizioni contrattuali che: “in caso di assenza per malattia ed infortuno non professionale il lavoratore deve informare immediatamente, di norma, prima dell’inizio del turno di servizio, la Direzione sanitaria o quella amministrativa, secondo le rispettive competenze, e trasmettere l’attestazione di malattia entro due giorni dalla data del rilascio” (cfr. artt. 41 e 42 ccnl r.s.a e strutture sanitarie personale non medico; art. 23 personale medico).
Dal tenore letterale della disposizione in parola appare evidente come le indicazioni contenute nella stessa risultino in linea con quanto precisato dai giudici della Cassazione in merito alla necessità di un tempestivo invio della documentazione necessaria, al fine di poter riconoscere al lavoratore la corrispondente indennità prevista.
Maggiormente articolato si mostra, invece, il ragionamento in merito alla possibilità di procedere al licenziamento del lavoratore nel caso in cui – oltre all’intempestivo invio della certificazione medica – dal contenuto della stessa non si riuscissero a dedurre le ragioni giustificatrici della mancata ripresa dell’attività lavorativa.
Al proposito, i contratti collettivi della sanità privata contemplano espressamente provvedimenti disciplinari di natura conservativa (richiamo verbale, richiamo scritto, multa, sospensione) nel caso in cui il lavoratore “non si presenti al lavoro omettendo di darne comunicazione e giustificazione ai sensi dell’art. 39, o abbandoni anche temporaneamente il posto di lavoro senza giustificato motivo” (cfr. art. 41 lett. a) ccnl dipendenti; art. 40 lett. a) dipendenti RSA; art. 11 lett. a) ccnl personale medico dipendente).
Perché da un’infrazione come quella in parola possa derivare un giustificato motivo di licenziamento del dipendente, è necessario, sempre secondo le norme del codice disciplinare indicate, che tale infrazione possegga un carattere di gravità tale in grado di ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e dipendente.
In vero, tale specifica precisazione (contenuta nella lettera A dei medesimi articoli citati) si presta ad una valutazione discrezionale del giudice in termini di “gravità” della condotta posta in essere, la quale all’esito dell’eventuale giudizio di impugnativa incardinato dal dipendente in merito alla legittimità del giustificato motivo o della giusta causa sottesi al licenziamento, ben potrebbe vedere condannato il datore di lavoro alla corresponsione di un’indennità risarcitoria.
Difatti, alla luce delle novità introdotte in tema di licenziamenti disciplinari dalla recente Riforma Fornero, – qualora il giudice ritenesse che la sanzione (sebbene legittima) appaia comunque sproporzionata – dichiarerebbe risolto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento (quindi senza reintegra), ma condannando, di conseguenza, il datore di lavoro al solo pagamento di un’indennità risarcitoria fissata tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità in relazione all’anzianità di servizio, al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’attività economica, al comportamento delle parti, con onere a carico del giudice di specifica motivazione a riguardo (cfr. 5° comma art. 18 Stat. Lav., come modificato dalla Riforma Fornero).
Ad ogni modo i contratti collettivi della sanità privata, prevedono due ulteriori specifiche disposizioni relative alla fattispecie in esame, integrate le quali, è consentito il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo.
La lettera B) delle norme sopra citate, infatti, espressamente prevede come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento: “l’assenza ingiustificata per tre giorni consecutivi o assenze ingiustificate ripetute per tre volte in un anno, in un giorno precedente e/o seguente alle festività ed alle ferie”.
Parimenti, consente l’applicabilità di una sanzione di natura espulsiva la lettera D) delle medesime disposizioni, che individua quale legittima causa di licenziamento: “l’assenza per simulata malattia”.
Concludendo, alla luce del recente orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, ove un dipendente decidesse, arbitrariamente, di non recarsi al lavoro pur essendo stato ritenuto idoneo a riprendere il servizio dal medico di controllo, omettendo, tra l’altro, di comunicare tempestivamente ed in modo adeguato l’asserito protrarsi della malattia, ben potrebbe essere soggetto ad un provvedimento di natura espulsiva, solo ove venissero specificatamente contestate le infrazioni contenute nelle lettere B) ed D) del codice disciplinare.
Diversamente, un procedimento disciplinare fondato unicamente sull’infrazione di cui alle lettara a) – sanzionata unicamente con un provvedimento di natura conservativa – difficilmente potrebbe legittimare una sanzione espulsiva, e ciò, anche laddove nella contestazione venisse dato rilievo alla “particolare gravità” della condotta assunta.