21 Settembre 2018
La recentissima sentenza della Cassazione n. 21965 del 10 settembre 2018 non si fa certamente notare per coerenza logica e sistematica, avendo la Suprema Corte affermato che non presenta il carattere dell’antigiuridicità il comportamento di un lavoratore che, all’interno di un gruppo “chiuso” (e, cioè, visibile ai soli iscritti) su Facebook appartenente ad una sigla sindacale, aveva apostrofato il datore di lavoro con il termine “schiavista”, definendolo anche “cogl…. e faccia di m…..”.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, tali affermazioni – non essendo rivolte al pubblico, ma ai soli iscritti al gruppo – non costituirebbero una diffamazione del datore di lavoro, né lederebbero la sua reputazione, dovendosi invece ritenere tutelate dal diritto di critica e dal diritto alla segretezza della corrispondenza privata tutelati dalla Costituzione.
Peccato, tuttavia, che tra le persone che avevano accesso al gruppo vi erano altri lavoratori della medesima azienda, cosicché tali esternazioni erano ben conoscibili da parte dei dipendenti del datore di lavoro.
È evidente, pertanto, come il comportamento contestato ledesse pienamente l’immagine ed il buon nome dell’azienda e, in particolare, del suo amministratore delegato, apostrofato con i suddetti epiteti davanti al suo personale.
Ciò, inoltre, non può non aver inciso sul clima aziendale, bene che – essendo essenziale per il buon andamento dell’attività produttiva – non può non essere adeguatamente tutelato.
La sentenza in esame, pertanto, non appare affatto condivisibile, avendo effettuato un contemperamento del “diritto di critica” del lavoratore e del diritto alla reputazione del datore di lavoro eccessivamente “sbilanciato” in favore del primo, utilizzando a tal fine argomenti di tipo formale che non sembrano tenere abbastanza in considerazione l’effettiva realtà fattuale della vicenda.