28 Novembre 2014
La Corte di Cassazione, con la recentissima pronuncia n. 23669 del 6 novembre 2014, ha, per la prima volta, esaminato la legittimità o meno di un licenziamento alla luce del nuovo testo dell’art. 18 l. 300/1970, così come modificato dalla Riforma Fornero (l. 92/2012), approvando, per una volta, l’operato del legislatore.
Ciò non dovrebbe costituire una novità, in quanto la giurisprudenza ha la funzione di declinare nel caso concreto quanto previsto, in via generale e astratta, dalla legge, in modo tale da dirimere le controversie specifiche.
Tuttavia, è fin troppo noto come, spesso, le pronunce si discostino dal testo (talvolta chiarissimo) della legge, soprattutto quando trattasi del licenziamento!
Si è già avuto modo di rilevare in una precedente nota, come una parte cospicua della giurisprudenza di merito abbia interpretato la Riforma Fornero (che, come noto, ha graduato le possibili conseguenze del licenziamento illegittimo, riservando la c.d. “reintegra” , oltre ai casi di discriminazione, solamente alle ipotesi in cui il “fatto” posto a motivazione del recesso sia insussistente o sia contemplato dalla contrattazione collettiva quale causa di applicazione di una sanzione conservativa) in modo assolutamente fuorviante, tanto da neutralizzarne gli effetti.
Il filone giurisprudenziale in questione, inaugurato dall’ordinanza del Tribunale di Bologna del 15 ottobre 2012, aveva infatti ritenuto che, con la locuzione “insussistenza del fatto”, il legislatore dovesse far “necessariamente riferimento al c.d. Fatto Giuridico, inteso come il fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l’elemento soggettivo”, atteso che una diversa interpretazione sarebbe risultata “palesemente in violazione dei principi generali dell’ordinamento civilistico, relativi alla diligenza ed alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo “.
Orbene, dalla stessa terminologia utilizzata dalla giurisprudenza sopra richiamata appare evidente il tentativo di attribuire alla legge un significato alla stessa estraneo, al fine di ottenere il livello di tutela per i lavoratori ritenuto, con valutazione discrezionale, congruo.
E ciò in evidente spregio di quanto previsto dall’art. 12 delle Preleggi, secondo cui “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.
Tuttavia, la Cassazione – esercitando la funzione che gli è propria – è intervenuta confermando senza remore l’unica interpretazione possibile della legge.
La pronuncia in esame, infatti, afferma che “il nuovo art.18 ha tenuto distinta (…) dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione”.
Di conseguenza, secondo la Corte di legittimità, i giudici, al fine di individuare le ipotesi a cui si applica la reintegra, devono unicamente accertare la “sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che [deve] essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, (…) con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.”
Dal sistema delineato dalla Cassazione (rectius: coincidente con il dettato della legge), risulta rafforzata l’interpretazione – invero sostenuta dalla dottrina maggiormente accreditata – secondo cui, nel nuovo sistema, la reintegra costituisce una sanzione del tutto residuale, applicabile solamente nei casi in cui il licenziamento risulti illegittimo senza ombra di dubbi e senza possibilità di errore da parte del datore di lavoro.
Negli altri casi, invece, il lavoratore non può vantare il diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro, ma solamente quello a percepire un ristoro economico del danno patito.
Con riferimento al licenziamento per giustificato motivo soggettivo, in particolare, la sentenza in questione afferma il principio secondo cui la tutela reintegratoria – oltre che ai licenziamenti discriminatori e a quelli adottati nonostante le previsioni conservative contenute nei contratti collettivi – trova applicazione solamente qualora il fatto contestato (che, in ogni caso, deve costituire un illecito disciplinare, posto che nessun provvedimento sanzionatorio può essere adottato sulla base di un comportamento legittimo del lavoratore) non sia mai stato commesso.
In applicazione dei principi suesposti, infine, la Cassazione ha chiarito che anche la violazione dei principi di immediatezza della contestazione e di tempestività del recesso non possono motivare la reintegra del dipendente, ma solamente una condanna di tipo economico, così sgomberando definitivamente il campo in ordine alla reale portata della tutela reintegratoria prevista dalla nuova formulazione dell’art. 18 Stat. Lav.