4 Novembre 2016
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza del 12 settembre 2016 n. 17921, ha emesso un’interessante pronunzia sulle conseguenze che possono derivare da un patto di prova nullo.
In particolare, il caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità, riguarda un licenziamento comminato per mancato superamento del periodo di prova ad un lavoratore cui erano state attribuite mansioni di insegnante.
Il dipendente licenziato assumeva la nullità del patto in virtù del fatto che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato intervenuto inter partes aveva fatto seguito ad un contratto di collaborazione a progetto della durata di due anni in cui, a dire del lavoratore, la sperimentazione delle sue capacità lavorative era già avvenuta con esito positivo.
Il datore di lavoro, dal canto suo, si difendeva sostenendo una parziale differenza qualitativa e quantitativa delle mansioni eseguite durante lo svolgimento delle due diverse tipologie contrattuali.
Come già si è avuto modo di chiarire in altre occasioni (cfr news del 23 gennaio 2015) la Suprema Corte è consolidata nel ritenere che il patto di prova in due contratti successivamente stipulati tra le medesime parti sia ammissibile unicamente ove risponda ad una finalità apprezzabile e non elusiva di norme cogenti, come – ad esempio – potrebbe verificarsi nell’ipotesi in cui tra i due contratti sia intercorso un notevole lasso di tempo e le mansioni assegnate richiedano particolari capacità che, a distanza di tempo, possano anche subire rilevanti cambiamenti.
In ogni caso, qualunque sia la finalità apprezzabile che renda legittima l’apposizione del periodo di prova in due successivi contratti, questa deve essere dimostrata dal datore di lavoro e ritenuta sussistente dai giudici di merito, che – nel caso in commento – non ne avevano invece ravvisato l’esistenza (rectius: l’utilità), dichiarando quindi nullo il patto di prova.
Tuttavia, l’aspetto più rilevante della sentenza in commento riguarda l’accertamento delle conseguenze di tale nullità.
In particolare i giudici di merito investiti della controversia, poi riesaminata dalla Corte di Cassazione, avevano ritenuto che la nullità del patto di prova vanificasse gli effetti del recesso, determinando pertanto la ricostituzione del rapporto di lavoro e – di conseguenza – l’obbligo di corrispondere al lavoratore tutte le retribuzioni maturate dal data del licenziamento nullo fino alla ricostruzione del rapporto di lavoro.
Di contro i giudici di legittimità hanno ritenuto che dovesse trovare applicazione al caso di specie la disciplina ordinaria sui licenziamenti e, quindi, la tutela obbligatoria ovvero la tutela reale a seconda del requisito dimensionale, ovvero del numero di dipendenti del datore di lavoro.
In sostanza la nullità del passato di prova non comporta sic et simpliciter la nullità del licenziamento, che può essere accertata soltanto nei casi in cui il lavoratore deduca e dimostri che in effetti si sia trattato di un licenziamento illecito, poiché – ad esempio – intimato per ragioni discriminatorie di tipo religioso, sindacale, politico, razziale, di lingua o di sesso.
Pertanto, nel caso in cui il patto di prova sia dichiarato nullo, il licenziamento non è esentato dall’applicabilità dell’ordinaria disciplina di controllo delle ragioni del licenziamento, con la conseguenza che quest’ultimo è soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o giustificato motivo, ovvero della ricorrenza di motivi che lo rendano illecito e/o discriminatorio e, quindi, nullo.