17 Luglio 2015
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 10046 del 15 maggio 2015, è intervenuta al fine di risolvere l’annosa questione relativa alla definizione del c.d. incentivo all’esodo che, come noto, è assoggettato alla tassazione separata di cui all’art. 17 del Tuir e non rientra nella base di computo ai fini contributivi.
Sul punto, la circolare Inps n. 263 del 24 dicembre 1997 ha da tempo precisato che rientrano nel novero degli incentivi all’esodo le somme erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro in eccedenza alle normali competenze comunque spettanti ed aventi lo scopo di indurre il lavoratore ad anticipare la conclusione dell’attività lavorativa rispetto alla sua naturale scadenza.
Inoltre, a seguito dell’entrata in vigore del D.lgs. 314/97, è stato esteso il campo d’applicazione della disciplina in questione (e, quindi , in particolare, l’esonero dai contributi previdenziali) a tutte le somme la cui erogazione tragga origine dalla cessazione del lavoro.
Conseguentemente, secondo l’Inps, dal 1° gennaio 1998, sono state esonerate da contributi previdenziali, oltre le incentivazioni all’esodo di cui sopra, tutte quelle forme di erogazione prive di uno specifico titolo retributivo, corrisposte in sede di risoluzione di rapporto di lavoro e la cui funzione desumibile dalla volontà contrattuale o dall’atteggiarsi delle parti sia riconducibile a quella di agevolare lo scioglimento del rapporto.
A fronte dell’apparente chiarezza di tali indicazioni, nella applicazione pratica della normativa in questione si sono riscontrate notevoli difficoltà, soprattutto nei casi di stipula di accordi successivi al licenziamento che prevedano il pagamento di una somma a fronte della rinuncia da parte del lavoratore (anche in sede conciliativa) all’impugnativa del recesso.
In tal caso, infatti, ci si è spesso domandati se l’importo erogato al dipendente costituisca un incentivo all’esodo, ovvero una somma corrisposta in sostituzione dei redditi perduti a causa dell’anticipata cessazione del rapporto di lavoro.
Orbene, è proprio questa l’ipotesi esaminata dalla Cassazione con la citata sentenza n. 10046/15, mediante la quale la Corte ha affrontato il caso di una azienda che, avendo licenziato un numero rilevante di lavoratori (che, in realtà, avevano già accettato di aderire ad un percorso di incentivo all’esodo), ha poi stipulato con gli stessi appositi atti di conciliazione individuale con cui, a fronte dell’erogazione di un importo economico, è stata conferita “certezza e definitività alle risoluzioni dei rapporto di lavoro”.
In tal caso, la Suprema Corte ha confermato la correttezza dell’operato datoriale, ritenendo che rientrino “tra le somme che vanno escluse dalle retribuzione imponibile in quanto corrisposte, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori, non solo quelle conseguite con un apposito accordo per la erogazione dell’incentivazione anteriore alla risoluzione del rapporto, ma tutte le somme che risultino erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro ai fini di incentivare l’esodo, potendo risultare ciò sia da una indicazione in tal senso nell’alto unilaterale di liquidazione delle spettanze finali, sia da elementi presuntivi”.
La sentenza in questione, pertanto, ammette espressamente la possibilità di erogare incentivi all’esodo (esclusi dalla base imponibile previdenziale) anche nei casi in cui il lavoratore sia stato già licenziato, a condizione che, tuttavia, non si evinca che, nella specifica fattispecie, l’erogazione di denaro abbia una diversa finalità come, ad esempio, quella di porre fine ad una lite già iniziata o minacciata mediante l’impugnativa del licenziamento (cfr. Cass. 3685/2014).
In particolare, pertanto, sulla base delle considerazioni della Corte, possono essere correttamente considerate incentivi all’esodo le somme erogate ai lavoratori che, prima del licenziamento, abbiano già manifestato la propria non opposizione al recesso (ipotesi che si realizza, normalmente, nell’ambito delle procedure di licenziamento collettivo).
In tale fattispecie, inoltre – salvo che la risoluzione sia avvenuta non a fronte di una esigenza aziendale, bensì su richiesta del lavoratore – non vi è ragione di ritenere di per sé inapplicabile la NASpI, atteso che lo stesso Ministero del Lavoro, con risposta ad interpello n. 13 del 24 aprile 2015, pur riferendosi all’ipotesi di cui all’art. 6 del d.lgs. 23/2015, ha precisato che la rinuncia ad impugnare il licenziamento non è incompatibile con tale trattamento di disoccupazione.
E d’altronde, è appena il caso di rilevare che l’indennità in questione, per espressa previsione di legge, spetta oggi anche nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, laddove tale accordo sia raggiunto innanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro competente nell’ambito del procedimento di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 7 l. 604/1966.
Da tale norma, pertanto, sembra evincersi il principio per cui la NASpI spetti non solo quando il lavoratore subisca passivamente la decisione datoriale di cessazione del rapporto di lavoro, ma anche quando lo stesso aderisca ad una specifica (e manifesta) esigenza aziendale di riduzione del personale.