28 Luglio 2020
Come noto, a seguito della cd. Riforma Fornero, l’art. 18 Stat. Lav. ora prevede, tra l’altro, che “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria…”.
In ragione di quanto sopra, pertanto – diversamente dal passato – le ipotesi che danno luogo alla reintegra nel posto di lavoro (cd. tutela reale) sono ora da ritenersi residuali e specificamente individuate dal legislatore, non ammettendo esse un’interpretazione analogica.
Di tale principio ha fatto corretta applicazione la Suprema Corte in una recente pronuncia (Cass. 11701/2020), nella quale è stata chiamata a decidere in ordine alla legittimità del licenziamento intimato ad un dipendente di un ente privato.
Nella fattispecie, il lavoratore era stato licenziato per aver determinato un considerevole danno economico all’ente in seguito ad errori nella redazione del bilancio.
La Corte d’Appello – confermando le statuizioni del primo grado di giudizio – rilevava come non fosse stata fornita la prova del lamentato considerevole danno economico, quindi dichiarava l’illegittimità del recesso, disponendo la reintegra del dipendente, ravvisando nella fattispecie il ricorrere di un’ipotesi sanzionata in via conservativa dal ccnl.
A tale proposito, la Corte territoriale riteneva che – alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle modifiche introdotte dalla cd. legge Fornero – ai fini della tutela reale non fosse necessario che la norma collettiva prevedesse lo specifico comportamento posto in essere dal lavoratore, risultando a ciò sufficiente che vi fosse una ben precisa fattispecie disciplinare, ancorchè di carattere generale o “di chiusura”, nella quale il comportamento contestato potesse essere incasellato.
In ragione di quanto sopra, la Corte riteneva di poter superare l’assenza di una specifica previsione disciplinare relativa al fatto addebitato, ritenendo quest’ultimo riconducibile ad ipotesi sanzionate in via conservativa e pertanto facendo da ciò discendere l’applicazione della tutela reintegratoria.
Chiamata a pronunciarsi sul ricorso dell’ente, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata.
Più in particolare, gli Ermellini precisano che la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato comporta l’applicazione della tutela reintegratoria solo quando “la fattispecie accertata sia specificamente contemplata dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa; al di fuori di tale caso la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali l’art. 18, quinto comma prevede la tutela indennitaria cd. forte”.
I Supremi Giudici, inoltre – come in precedenza accennato – evidenziano con chiarezza come la tutela reintegratoria assuma, a seguito della cd. Riforma Fornero, un carattere eccezionale e pertanto, in applicazione dei principi generali, le norme eccezionali devono essere interpretate restrittivamente, rimanendo esclusa ogni possibilità di ricorso all’analogia nell’interpretazione della norma collettiva ai fini di un’indebita estensione della sua portata.