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Misure cautelari ed immediatezza della contestazione

23 Settembre 2016

Nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro, può accadere che il datore di lavoro venga a conoscenza dell’avvio di indagini penali nei confronti del proprio dipendente per fatti lavorativi o extralavorativi, senza tuttavia avere piena contezza dei comportamenti concretamente posti in essere dal lavoratore.
In questi casi, il datore è combattuto tra la volontà di intervenire prontamente, esponendosi tuttavia al rischio di una contestazione frettolosa e magari su fatti neppure verificati, e la necessità di attendere di conoscere pienamente le circostanze del caso concreto, con il rischio tuttavia che tale inerzia possa violare l’obbligo di tempestività della contestazione disciplinare.
Ad aiutare il datore di lavoro in tale valutazione, è intervenuta una recentissima pronuncia della Suprema Corte (Cass. 10017/16), che fornisce utili indicazioni in merito.

Nel caso di specie, un’azienda – avuta notizia di un decreto di perquisizione locale e personale emesso dalla Procura della Repubblica nei confronti di un proprio dipendente nell’ambito di indagini avviate per i delitti di associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta commessi da dipendenti della società, in concorso con imprenditori, al fine di garantire l’assegnazione a questi ultimi degli appalti – sospendeva cautelativamente dal servizio il dipendente in questione.
Dopo circa un anno, l’azienda veniva a conoscenza dell’applicazione nei confronti del lavoratore della misura cautelare degli arresti domiciliari. Ne seguiva la comunicazione della revoca del precedente provvedimento e l’adozione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, con espressa riserva di ogni ulteriore iniziativa “sulla base degli sviluppi del procedimento penale“.
Successivamente, a distanza di circa un mese, formulava puntuale contestazione disciplinare con la quale si richiamavano i fatti oggetto del procedimento penale, sulla base di un circostanziato esame delle intercettazioni trascritte nell’ordinanza cautelare.
Infine, a seguito delle controdeduzioni del dipendente, ritenute insufficienti a giustificare le condotte contestate, irrogava il provvedimento espulsivo.

Il lavoratore – dopo aver visto respinte le sue domande dai giudici di merito – ricorreva in cassazione, evidenziando, tra le altre censure, l’illegittimità del recesso per avere il datore di lavoro consumato il potere disciplinare all’atto della revoca del primo provvedimento cautelativo e la sostituzione con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione, nonché la tardività della contestazione medesima, per essere intervenuta a lunga distanza dalla notizia dell’esistenza di un’indagine a carico del lavoratore, come pure l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche contenute nell’ordinanza cautelare nell’ambito del giudizio disciplinare.
La Suprema Corte, tuttavia, rigetta il ricorso, confermando la sentenza della corte territoriale.
Ed invero, i Giudici di legittimità – in ordine alla prima doglianza – evidenziano come, con la revoca della prima sospensione, la Società aveva inteso solo comunicare che la prima sospensione disposta (con conservazione della retribuzione) sarebbe stata sostituita da quella senza retribuzione, in ragione dell’intervenuta sottoposizione del lavoratore alla misura cautelare penale che impediva in radice lo svolgimento della prestazione lavorativa.

In ragione di quanto sopra, non vi era stata alcuna consumazione del potere disciplinare, che anzi il datore di lavoro si era nell’occasione espressamente riservato di esercitare.
Per quanto attiene alla tempestività della contestazione, la Suprema Corte – dopo aver ricordato che il requisito della immediatezza va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo a seconda della difficoltà di accertare i fatti e/o della complessità della struttura organizzativa aziendale – ricorda come tale requisito è posto a presidio del diritto del lavoratore ad esperire un’utile difesa ed alla certezza dei rapporti giuridici nel contesto dell’esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede.
Nel caso di specie, affermano gli Ermellini, la Corte territoriale ha rilevato che il decreto di perquisizione e sequestro – pur consentendole di emettere il provvedimento (cautelare) della sospensione dal lavoro – non conteneva elementi sufficienti per l’azienda a comprendere le responsabilità del lavoratore, appresi in effetti solo a seguito della lettura dell’ordinanza cautelare.
Aggiunge la Suprema Corte, pertanto, che solo da tale momento decorre per il datore di lavoro il termine per la contestazione degli addebiti, ribadendo con ciò il proprio consolidato orientamento, a mente del quale “in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la definitiva contestazione disciplinare ed il licenziamento per i relativi fatti ben possono essere differiti in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso” (nello stesso senso, da ultimo, Cass. 14103/14).

A sostegno di tale posizione, rilevano i Supremi Giudici come, attraverso la sospensione cautelativa, il datore di lavoro manifesta chiaramente la volontà di ritenere disciplinarmente rilevanti i fatti oggetto di procedimento penale e, quindi, il decorrere del tempo non può far sorgere in favore del lavoratore alcun legittimo affidamento, ben sapendo che quei fatti potranno essergli imputati disciplinarmente e ben potendo pertanto sin da subito attivarsi per predisporre la propria strategia difensiva.
Peraltro, conclude la Corte, la possibilità di differire la contestazione al momento della conclusione delle indagini penali, previa adozione del provvedimento di sospensione, riposa anche sulla necessità di salvaguardare il segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., norma che impedisce di rendere noti gli atti rilevanti ai fini delle indagini.

Per quanto attiene infine alla doglianza relativa all’uso delle intercettazioni disposte nel procedimento penale, pretesamente operata in violazione dell’art. 270 c.p.p. – norma che statuisce l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte – la Suprema Corte richiama il proprio orientamento in materia (Cass., sez. un., n. 3020/15 e Cass., sez. un., n. 27292/09), affermando che tale norma è riferibile al solo procedimento penale deputato all’accertamento delle responsabilità penali dell’imputato o dell’indagato. Mentre, in relazione al profilo dell’utilizzabilità in concreto, presupposto per l’utilizzo esterno delle intercettazioni è la legittimità delle stesse nell’ambito del procedimento in cui sono state disposte.
Alla luce dei principi espressi dalla Suprema Corte, il datore di lavoro può ora operare le proprie valutazioni in ordine all’esercizio del potere disciplinare con maggiore tranquillità, sapendo di non essere necessariamente costretto ad agire non appena abbia qualsiasi notizia di un fatto ascrivibile al proprio dipendente, ma potendo attendere di conoscere con maggior precisione le condotte imputategli nel procedimento penale prima di operare la propria (immodificabile) contestazione disciplinare, sempre che tuttavia nelle more abbia operato una previa sospensione disciplinare del lavoratore.

Su tale ultimo aspetto – come pure sulla possibilità per il datore di lavoro di acquisire autonomamente notizia, da parte degli organi inquirenti, delle notizie utili ad incidere sul vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro – la Corte è chiamata ad uno sforzo ulteriore, non ritenendosi conforme a giustizia, a parere di chi scrive, affermare in via generale la possibile rilevanza di talune condotte (anche extralavorative) ad incidere sul rapporto di lavoro, senza tuttavia consentire al datore di averne contezza se non a seguito dei (troppo) lunghi tempi del procedimento penale.

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