15 Novembre 2019
Con una recente sentenza (n. 26618 del 18 ottobre 2019) la Corte di Cassazione è tornata sul concetto di dirigenza e, in particolare, sull’ applicabilità alla dirigenza medica dell’art. 2103 c.c.
I fatti di causa sono i seguenti: un dirigente medico aveva convenuto in giudizio l’Azienda sanitaria di appartenenza al fine di farsi riconoscere il trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva per l’incarico di dirigente di struttura complessa, avendo ricoperto il relativo incarico in sostituzione del titolare, collocato a riposo.
La Corte d’Appello di Palermo – riformando la sentenza di primo grado – aveva accolto la domanda proposta dal dirigente medico, riconoscendogli il diritto al trattamento economico per mansioni superiori.
L’Azienda ricorreva, quindi, per la cassazione della sentenza, evidenziando come i giudici di secondo grado non avessero tenuto in adeguata considerazione la natura dirigenziale del rapporto del medico.
La Suprema Corte, investita della vicenda, ha ribaltato la decisione della Corte d’Appello, evidenziando come “la sostituzione nell’incarico di dirigente medico del servizio sanitario nazionale … non si configura come svolgimento di mansioni superiori poichè avviene nell’ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria, sicchè non trova applicazione l’art. 2103 c.c.”.
L’inapplicabilità ai dirigenti dell’art. 2103 c.c. discende, infatti, dalle peculiarità proprie della qualifica dirigenziale che, secondo quanto chiarito dai giudici di legittimità, non esprime una posizione lavorativa inserita nell’ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì l’idoneità professionale del soggetto a ricoprire un incarico dirigenziale, necessariamente a termine, conferito con atto datoriale gestionale, distinto dal contratto di lavoro a tempo indeterminato.
L’introduzione della categoria dirigenziale nei confronti di tutti i medici ha scardinato per tale figura professionale il principio (fondamentale nel diritto del lavoro) per cui una volta raggiunta una determinata qualifica o assegnate al personale determinate mansioni queste non possano essere più revocate, ma solo sostituite con altre equivalenti.
E’ quanto sancito dall’art. 2103 c.c., a norma del quale il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte (secondo la formulazione introdotta dal d.lgs. n. 81/15).
Orbene, se l’inquadramento dei dirigenti è unico e la distinzione tra il personale medico si fonda sulla tipologia di incarico conferito non è più possibile parlare di conseguimento di una qualifica superiore in virtù delle mansioni svolte.
Corollario dell’introduzione dell’unico ruolo dirigenziale è, inoltre, la revocabilità degli incarichi, tenuto conto dei risultati raggiunti: di conseguenza, l’incarico non rappresenta più un diritto intangibile, ma il suo mantenimento è subordinato al positivo superamento delle valutazioni periodiche.
Sulla scorta di tali considerazioni, i giudici di legittimità hanno quindi concluso che, non essendo configurabile lo svolgimento di mansioni superiori in caso di sostituzione nell’ incarico di dirigente medico, non possa di conseguenza trovare applicazione l’art. 2103 c.c.
Al sostituto spetterà dunque non il trattamento accessorio del sostituito, ma solo l’indennità sostitutiva prevista dal ccnl, senza che rilevi, peraltro, in senso contrario, neppure la prosecuzione dell’incarico oltre il termine contrattualmente previsto per l’espletamento della procedura per la copertura del posto vacante, dovendosi considerare adeguatamente remunerativa l’indennità specificamente prevista dalla disciplina collettiva e senza che possa essere invocato in tali circostanze l’art. 36 Cost.