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L’obbligo di repêchage non può incidere negativamente sugli altri lavoratori.

25 Giugno 2019

Con la recente ordinanza del 7 marzo 2019 n. 6678, la Suprema Corte di Cassazione torna a delineare con maggiore puntualità i confini relativi all’obbligo di repêchage a cui è tenuto il datore di lavoro in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Come noto, ai fini della dimostrazione della legittimità del recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo occorre, non solo che sia effettivamente sussistente una ragione che giustifichi il licenziamento (ad esempio, l’esternalizzazione del servizio a cui è adibito il lavoratore o la sopravvenuta inidoneità al lavoro di quest’ultimo per motivi di salute), ma è necessario provare altresì di aver tentato (senza riuscirci) di ricollocare il dipendente interessato in altre posizioni lavorative alternative.

La vicenda sottoposta all’esame dei giudici di legittimità riguardava il licenziamento di una lavoratrice (parzialmente inidonea al lavoro) che lamentava l’erroneità in cui è incorsa la Corte d’Appello per aver giudicato legittimo il recesso datoriale, nonostante fossero presenti in azienda due posizioni compatibili con il proprio “ridotto stato di salute” (come confermato dal CTU in primo grado) occupate da altre lavoratrici alle dipendenze di una società appaltatrice, in forza di un contratto di appalto ritenuto illegittimo.

Secondo la dipendente licenziata la decisione dei giudici di secondo grado doveva ritenersi errata (e quindi meritevole di essere cassata) per aver trascurato – nella ricerca di una possibile ricollocazione – che vi erano le suddette posizioni lavorative illecitamente appaltate, in cui poteva essere ricollocata (sostituendo di fatto una delle dipendenti dell’appalto).

I Giudici di Piazza Cavour, rigettando le richieste della lavoratrice, hanno confermato la pronuncia di secondo grado per essersi uniformata al principio di diritto più volte espresso dalla Suprema Corre, secondo cui “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, determinato da ragioni tecniche, produttive e organizzative, l’ambito del sindacato giurisdizionale, con riferimento all’obbligo del “repechage”, non puo’ estendersi alla valutazione delle scelte gestionali ed organizzative dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’articolo 41 Cost.; ne consegue che il detto obbligo non puo’ ritenersi violato quando l’ipotetica possibilità di ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale non è compatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale (cfr. Cass. n. 21715 del 2018)”.

Gli Ermellini, chiariscono che nell’ipotesi in cui il licenziamento si fondi sull’inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, sussiste l’obbligo del datore di lavoro di verificare l’eventuale possibilità di effettuare degli adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro, purché ciò comporti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi del lavoratore inabile.

In forza del suddetto principio, la Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice, escludendo che le suddette misure organizzative possano incidere negativamente sulle mansioni e sulle altre condizioni di lavoro degli altri lavoratori (ad esempio, ambiente e luogo di lavoro, orario e tempi di lavoro).

Ed infatti, secondo la Cassazione “la necessità di bilanciare la tutela degli interessi, costituzionalmente rilevanti (articoli 4, 32, 36 Cost.) del prestatore con la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore (garantita dall’articolo 41 Cost. e definita come diritto fondamentale dagli articoli 15 e 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la “Carta di Nizza”), implica che l’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, o di quelle diverse e riconducibili alla stessa mansione, o ad altra equivalente o inferiore, puo’ essere rifiutata legittimamente dall’imprenditore se comporti oneri organizzativi eccessivi (da valutarsi in relazione alle peculiarità dell’azienda ed alle relative risorse finanziarie) e, in particolare, se derivi, a carico di singoli colleghi, la privazione o l’apprezzabile modificazione delle modalità di svolgimento della loro prestazione lavorativa che comportino l’alterazione della predisposta organizzazione aziendale”.

Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione, svolgendo il suddetto condivisibile ragionamento logico-giuridico, ha ritenuto infondate le pretese della dipendente che invocava la rimozione, da parte del datore di lavoro, dell’appalto affidato ad altra impresa, ai fini del recupero di postazioni libere compatibili con il suo stato di salute, precisando (in linea con le motivazioni svolte dai giudici di secondo grado) che l’eventuale accertamento dell’illegittimità dell’appalto avrebbe comportato semmai il riconoscimento del diritto della lavoratrice ivi adibita all’assunzione presso la committente e non di certo la ricollocazione di quella licenziata.

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