4 Agosto 2015
La sentenza n. 20827 emessa dalla Corte di Cassazione in data 11 settembre 2013, da un lato, offre l’occasione per fare il punto sulle azioni esperibili dal lavoratore nell’ipotesi di omissione contributiva e, dall’altro, apre la strada ad uno strumento difensivo di cui il datore di lavoro può servirsi al fine di – quantomeno – limitare le pretese risarcitorie derivanti dal danno da perdita della pensione.
Ebbene – sotto il primo profilo – nell’ipotesi di mancato o irregolare versamento di contributi previdenziali ormai prescritti, l’ordinamento prevede due rimedi a tutela della prestazione pensionistica, e precisamente (cfr. anche Cass. S.U. n. 3678/2009):
– la richiesta rivolta all’INPS, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 1338/62, di costituzione di una rendita vitalizia a copertura della quota di pensione relativa al periodo risultato scoperto; tale facoltà, peraltro, è riconosciuta sia al datore di lavoro (motu proprio o su sollecitazione del lavoratore) sia a quest’ultimo, il quale può sostituirsi al datore di lavoro, chiedendo direttamente all’INPS il riscatto per la costituzione della rendita, qualora il datore di lavoro non sia consenziente o reperibile;
trattandosi di un rimedio finalizzato alla ricostituzione della posizione contributiva la relativa azione può essere esperita, sempre a condizione che i contributi siano prescritti, anche in costanza di rapporto di lavoro e prima del raggiungimento dei requisiti per il conseguimento della prestazione pensionistica;
– l’azione di risarcimento del danno, ex art. 2116, 2° comma, c.c. da perdita totale o parziale della prestazione previdenziale;l’esperibilità di tale azione risarcitoria è subordinata, invece, non solo all’intervenuta prescrizione del credito contributivo, ma anche alla contemporanea sussistenza degli ulteriori requisiti che concorrono al conseguimento della prestazione pensionistica, ossia il possesso dell’età pensionabile e la cessazione del rapporto di lavoro.
Peraltro entrambe le suddette azioni sono soggette al termine di prescrizione decennale, il quale, tuttavia, ha una diversa decorrenza: infatti, nel primo caso, comincia a decorrere già a partire dal momento in cui risulta, a sua volta, prescritto il diritto al versamento dei contributi (e, quindi, l’INPS non può più riceverli), mentre nel secondo caso, decorre dal verificarsi del danno previdenziale (ossia, della perdita totale o parziale del trattamento pensionistico, come risultante al compimento dell’età pensionabile).
Partendo da tale presupposto gli Ermellini, nella citata pronuncia (ad onor del vero non del tutto scevra da critiche e, conseguentemente, suscettibile di essere seguita da eventuali pronunce di senso contrario), hanno affermato il seguente principio di diritto: «Il danno subito dal lavoratore per la perdita della pensione, conseguita all’omessa contribuzione previdenziale da parte del datore di lavoro (art. 2116 c.c.), si verifica al raggiungimento dell’età pensionabile, onde da questo momento decorre la prescrizione decennale del diritto al risarcimento. Tuttavia il lavoratore che, nel momento in cui il diritto dell’ente previdenziale al versamento dei contributi è estinto per prescrizione e viene così completata la fattispecie produttiva del danno, non prova di avere chiesto invano al datore la costituzione della rendita vitalizia di cui alla L. n. 1338 del 1962, art. 13, concorre con la propria negligenza a cagionare il danno suddetto, onde il risarcimento può essere ridotto oppure escluso ai sensi dell’art. 1227 cod. civ.».
In virtù della pronuncia esaminata la Suprema Corte configura l’esistenza di un rapporto di succedaneità tra i due strumenti previsti dall’ordinamento a tutela del diritto alla pensione, trasformando l’istituto della rendita vitalizia da tutela aggiuntiva a garanzia del credito previdenziale a strumento funzionalmente indispensabile per il successivo e fruttuoso esercizio dell’azione risarcitoria ex art. 2116 c.c.
In altri termini si riconosce all’azione di cui all’art. 13 della legge n. 1338/62 – esperibile sin dal momento della prescrizione dei contributi e, quindi, anche in costanza di rapporto lavorativo – una funzione preventiva rispetto al generale rimedio risarcitorio (esercitabile, di contro, solo al definitivo verificarsi del danno pensionistico), il quale potrebbe risultare del tutto o in parte compromesso in difetto di tempestivo esercizio della prima da parte del lavoratore.
In conclusione – fermo restando il sistema sanzionatorio previsto dalla legge n. 388/2000 in materia previdenziale ed assistenziale (il quale in caso di omissione o evasione contributiva prevede l’applicazione di sanzioni civili e penali in proporzione alla gravità dell’illecito commesso) – si ritiene opportuno che, nelle ipotesi in cui sia avanzata una richiesta risarcitoria per asserita omissione contributiva, il datore di lavoro abbia cura di verificare l’effettiva preventiva attivazione da parte del lavoratore della suddetta istanza ex art. 13 legge n. 1338/62, atteso che, in difetto di tale adempimento, è indubbio che la pronuncia in esame offra, allo stato, una valida argomentazione difensiva per tentare, in sede di contenzioso giudiziario, di limitare le pretese risarcitorie avanzate in conseguenza di omissioni contributive.