13 Gennaio 2023
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 28398/2022, ha stabilito che, al fine di dimostrare la natura ritorsiva del licenziamento, la registrazione occulta di conversazioni avvenute tra colleghi costituisce valido mezzo di prova.
In generale, per potersi parlare di licenziamento nullo perché di natura ritorsiva è necessario che il lavoratore dimostri che l’unico motivo su cui si fonda il provvedimento espulsivo consiste nell’intento vendicativo del datore di lavoro.
Tale prova, tuttavia. Risulta di evidente difficoltà, essendo necessari elementi specifici, tali da far ritenere la vendetta elemento determinante della volontà espulsiva del datore di lavoro.
La giurisprudenza è quindi ormai concorde nel ritenere che l’obbligo probatorio possa essere assolto mediante presunzioni nonché, in alcuni casi, per mezzo di tutti gli elementi prodotti in giudizio ed esaminati dal giudice su un piano unitario e globale, così da escludere la sussistenza di qualsivoglia giusta causa o giustificato motivo oggettivo.
Orbene, nel caso affrontato dalla Corte, la lavoratrice era stata licenziata per giusta causa per aver violato alcune procedure aziendali interne e, al fine di provare l’intento ritorsivo del licenziamento intimatole, aveva prodotto in giudizio le registrazioni di alcune conversazioni avvenute con i colleghi.
I giudici di primo e secondo grado, nel dichiarare l’illegittimità del licenziamento, hanno tuttavia escluso la natura ritorsiva dello stesso in quanto, secondo le pronunce di merito, le registrazioni prodotte dalla lavoratrice non potevano essere considerate idonee a costituire fonte di prova, poiché “abusive e illegittimamente captate e registrate”.
La Cassazione, di contro, ha accolto il ricorso incidentale della lavoratrice, affermando che, in ragione delle difficoltà probatorie che caratterizzano l’accertamento della natura ritorsiva del licenziamento, i giudici di merito avrebbero dovuto indagare a fondo sulla sussistenza dei requisiti necessari per la legittima registrazione delle conversazioni.
In particolare, nel richiamare un orientamento interpretativo ormai costante (Cass. n. 1250 del 2018; n. 5259 del 2017; n. 27424 del 2014), la Suprema Corte ha affermato come “la registrazione di una conversazione tra presenti possa costituire fonte di prova entro i limiti e le condizioni specificamente individuate. Si è, in particolare, statuito che la registrazione su nastro magnetico di una conversazione possa costituire fonte di prova, ex art. 2712 c.c., se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, e sempre che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa”.
Peraltro, ad avviso degli Ermellini, a giustificare le registrazioni interviene anche l’art. 24 del cd. Codice della privacy, che permette di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati personali sia necessario per far valere un diritto in sede giudiziale.
A ciò si aggiunga che la registrazione di una conversazione tra presenti, ove rispondente alle necessità conseguenti al legittimo esercizio del diritto di difesa e, dunque, “essendo coperta dall’efficacia scriminante dell’art. 51 c.p., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico” (Cass. Ib.), non può di per sé integrare illecito disciplinare, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra.
Pertanto, secondo la Suprema Corte, il lavoratore è legittimato a produrre in giudizio la registrazione delle conversazioni avute con i colleghi sul luogo di lavoro, anche se avvenuta in mancanza di consenso da parte di costoro, purché lo stesso sia strumentale alla dimostrazione del carattere ritorsivo del licenziamento subìto.