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Licenziamento, prime applicazioni della pronuncia della Consulta sull’illegittimità costituzionale della “manifesta” infondatezza del giustificato motivo oggettivo

23 Dicembre 2022

Sulla scorta dell’opera demolitiva della Consulta in ordine alle modifiche introdotte all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (Stat. Lav.) dalla cosiddetta Legge Fornero, cominciano a vedersi i primi effetti anche in relazione all’abrogazione della tutela indennitaria in caso di insussistenza del giustificato motivo oggettivo (g.m.o.) posto a fondamento di un licenziamento.

Come si ricorderà, infatti, con la sentenza n. 125/2022 la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, Stat. Lav. (come modificato dalla l. 92/2012), limitatamente alla parola «manifesta».

La censura investiva la previsione secondo la quale la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” determinava la reintegra nel posto di lavoro, al contrario delle “altre ipotesi in cui [il giudice] accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo”, sanzionate con la sola tutela indennitaria (da 12 a 24 mensilità della retribuzione).

In buona sintesi, il Giudice delle Leggi – richiamando la propria sentenza n. 59/2021 con la quale aveva già interpolato il testo originario della norma, modificandolo quanto alle conseguenze della manifesta infondatezza del g.m.o. – ha completato l’opera avviata l’anno precedente, ritenendo in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza quanto restava della disposizione normativa richiamata.

Sosteneva la Consulta, infatti, che “il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è, anzitutto, indeterminato”, prestando il fianco ad incertezze applicative ed a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento, inammissibili laddove si verta in tema di effetti del licenziamento.

Analogamente, esso sarebbe (rectius, sarebbe stato, attesa la declaratoria di illegittimità costituzionale, che ne ha determinato l’espunzione) irragionevole, in quanto estraneo all’apparato dei rimedi, “usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento”.

In altre parole, non vertendosi in ambito di maggiore o minore gravità di una condotta, bensì solo di una verifica prima facie dell’insussistenza del g.m.o., la determinazione in ordine alla sanzione reintegratoria e/o indennitaria sarebbe lasciata alla mera accidentalità dell’agevole accertamento di un’apparenza circa l’insussistenza, spesso non riscontrabile in casi come quelli in argomento.

Ebbene, così sinteticamente ricostruita la pronuncia della Consulta, se ne cominciano ora a vedere le prime applicazioni da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità.

Interessante sul punto la recente sentenza n. 34049/2022, resa il 18 novembre scorso dalla Suprema Corte, che ribalta gli esiti di tutti precedenti gradi di giudizio.

Nella fattispecie, un lavoratore era stato licenziato per g.m.o. a seguito della soppressione del suo posto di lavoro.

Il giudice di primo grado, pronunziando in sede sommaria sulla domanda di accertamento dell’illegittimità del recesso, dichiarava illegittimo il licenziamento ed estinto il rapporto di lavoro, condannando la società a corrispondere al lavoratore un’indennità pari a dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Il Giudice dell’opposizione confermava la statuizione, modificando solo l’entità del risarcimento quantificato in misura pari a quindici mensilità.

La Corte di appello adìta confermava la decisione di primo grado, ritenendo pacifica l’intervenuta soppressione del posto di lavoro, ma non adempiuto pienamente l’onere probatorio di tema di «repêchage», cosicché – in difetto di «manifesta insussistenza del fatto» – si dava luogo alla sola tutela indennitaria.

Il lavoratore ricorreva dunque per la cassazione della sentenza. La Suprema Corte, dopo aver respinto gli ulteriori motivi di ricorso, dà tuttavia atto del sopravvenuto intervento della Corte Costituzionale con le due pronunce sopra richiamate, che hanno determinato la modifica “dell’attuale assetto normativo”.

Evidenziano, infatti, gli Ermellini che il testo di cui all’art. 18, comma 7, l. 300/70 – per come risultante all’esito degli interventi della Consulta – ora prevede che, in ipotesi di insussistenza del fatto alla base del g.m.o., il giudice deve ordinare la reintegra del lavoratore nel proprio posto di lavoro (oltre all’indennità risarcitoria).

Ciò posto – atteso che, per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, nella nozione di fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo rientra anche l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore (cd. repêchage) – ne consegue che, nel caso di specie, il difetto probatorio in tema di repêchage determina la reintegra del dipendente licenziato.

A tale proposito, peraltro, si rileva che il principio – di derivazione eminentemente giurisprudenziale – dell’obbligo di repêchage, risulta oggi ancora più forte, se è vero che la Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza n. 125/2022, afferma espressamente che “Il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include tali ragioni [vale a dire le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa] e, in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”. Non sembra davvero possa dubitarsi della volontà della Consulta, con il suddetto inciso, di fornire un insuperabile avallo all’obbligo di repêchage.

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