14 Giugno 2013
Come noto la “Riforma Fornero” ha introdotto la necessità dell’espletamento di un preventivo tentativo di conciliazione (da svolgersi presso le Direzioni Territoriali del Lavoro competenti) in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La violazione di tale procedura determina – quando non si accertino anche altre motivazioni di invalidità del recesso – l’obbligo datoriale di risarcire il danno al lavoratore, commisurato tra le 6 e le 12 mensilità di retribuzione.
A seguito dell’emanazione della nuova normativa sono sorti immediatamente alcuni dubbi in ordine alla circostanza che tale tentativo di conciliazione fosse da intendersi come riservato unicamente alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo relativo a ragioni economiche (rectius “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, come recita l’art.3 della legge 604/66), ovvero se dovesse essere considerato esteso anche al licenziamento per superamento del comporto (dunque collegato a questioni attinenti alla persona del lavoratore) che la giurisprudenza e la dottrina identificano in ogni caso come “ licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Come indicato nella news pubblicata dallo scrivente l’8 febbraio scorso, è intervenuto a fornire gli auspicati chiarimenti il Ministero del Lavoro, con la circolare n.3 del 16 gennaio 2013, con la quale ha inequivocabilmente chiarito che “non si ritiene compreso nell’ambito dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo il licenziamento avvenuto per superamento del periodo di comporto ai sensi dell’art.2110 c.c.”.
A sostegno di tale interpretazione ministeriale, anche il Tribunale di Milano con ordinanza resa il 5 marzo 2013 ha stabilito che il licenziamento per superamento del periodo di comporto non implica il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, essendo questo “ontologicamente diverso”.
Senonchè sempre il Tribunale di Milano (in persona di un Giudice del Lavoro evidentemente diverso dal precedente) ha stabilito, con una recente ordinanza del 22 marzo 2013, che il licenziamento in questione debba essere preceduto dal tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 7 della legge 604/866 come modificato dalla Riforma Fornero, in quanto esso è assimilabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Per tali ragioni il suddetto giudice ha ritenuto altresì che la circolare Ministeriale n.3/2013, che invece esclude tale procedura conciliativa per il licenziamento determinato dal superamento del periodo di comporto, sia da ritenere inattendibile giacchè le circolari interpretative “non possono contraddire le norme di legge”.
Tale interpretazione giudiziale non appare, invero, fondata anche in ragione del fatto che, una volta che il datore di lavoro si sia determinato a recedere dal rapporto di lavoro per superamento del comporto (recesso che, evidentemente, non si configura quale obbligatorio, potendo eventualmente il datore di lavoro anche decidere di proseguire il rapporto con il lavoratore malgrado la sua elevata morbilità), ogni tentativo di conciliazione appare superfluo, atteso che un’eventuale soluzione conciliativa è stata certamente già oggetto di una precedente valutazione datoriale.
A ciò si aggiunga che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1404 del 31 gennaio 2012, ha precisato che il licenziamento per superamento del periodo di comporto si pone quale tertium genus, distinto sia dal licenziamento disciplinare, sia da quello per giustificato motivo oggettivo.
In definitiva la posizione di recente assunta dal Giudice del Lavoro di Milano non appare condivisibile; ciò nondimeno, in attesa che sopraggiungono diversi pronunciamenti giurisprudenziali e si formi così un orientamento maggiormente consolidato sul punto, si suggerisce di valutare l’opportunità di procedere al preventivo tentativo di conciliazione anche nella ipotesi di licenziamento per superamento del comporto.
Tale soluzione, seppure implichi l’adempimento di una procedura che inevitabilmente prolunga i tempi del licenziamento, potrebbe però evitare il rischio di incorrere nella sanzione prevista dalla normativa vigente per il mancato espletamento della procedura, ovvero l’obbligo di corrispondere al lavoratore un risarcimento del danno nella misura tra le 6 e le 12 mensilità di retribuzione.