19 Settembre 2018
Nell’ambito dell’attività di impresa, può accadere – a causa della riduzione dell’attività, dell’introduzione di modifiche organizzative, ecc. – che l’imprenditore si trovi nella necessità di licenziare un dipendente, divenuto eccedente rispetto alle mutate necessità.
In questi casi, si è in presenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, che consente il recesso ove sussista la ragione che determina l’esubero e risulti impossibile un’utile ricollocazione in azienda del dipendente esuberante.
Al proposito, tuttavia – laddove vi siano più lavoratori sui quali possa ricadere la scelta espulsiva – occorre precisare che l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo è condizione necessaria ma non sufficiente ai fini della legittimità del recesso, dovendosi provvedere ad individuare il destinatario del licenziamento seguendo criteri il più possibile oggettivi e, quindi, che non lascino spazio alla discrezionalità del datore di lavoro.
Sul punto, appare interessante una recentissima pronuncia (Cass. 25 luglio 2018, n. 19732), nella quale la Suprema Corte ha ribadito e precisato questo principio di diritto.
Nel caso di specie, un’azienda che svolgeva attività di pulizie si vedeva ridurre di 60 ore settimanali un appalto in relazione alle pulizie di alcuni stabili affidatile. In conseguenza di ciò, provvedeva a licenziare le due operatrici addette in quel momento a quegli stabili.
Una delle due lavoratrici, tuttavia, ricorreva al Giudice del lavoro, ritenendo illegittimo il recesso, e la Corte d’Appello adita, accogliendo il ricorso, rilevava che la sede produttiva ove l’azienda eseguiva l’appalto era più ampia dei due stabili in questione e che i lavoratori svolgevano tutti le medesime mansioni e ruotavano costantemente su tutti gli stabili, di talchè non vi fosse motivo per individuare quali destinatarie del recesso proprio le due lavoratrici in quel momento ivi addette.
La Corte territoriale evidenziava, pertanto, la violazione dei principi di buona fede e correttezza, in forza dei quali si sarebbe dovuto applicare il criterio dell’anzianità di servizio – espressamente previsto quale criterio di scelta nei licenziamenti collettivi e da estendersi analogicamente ai licenziamenti individuali – al fine di scegliere i lavoratori da licenziare, concludendo pertanto per la reintegra nel posto di lavoro della ricorrente oltre al risarcimento del danno pari a 12 mensilità della retribuzione.
Ricorreva, per la cassazione di tale pronuncia, il datore di lavoro, sostenendo la legittimità del proprio operato ed evidenziando in particolare l’inapplicabilità ai licenziamenti individuali della norma sui criteri di scelta per individuare il personale da licenziare, valida solo nell’ambito dei licenziamenti collettivi.
La Suprema Corte, tuttavia – pur accogliendo il ricorso in relazione alla disposta reintegrazione, ritenendo operante la sola tutela risarcitoria, stante la sussistenza della ragione che aveva determinato il recesso – conferma tuttavia la violazione dei principi di buona fede e correttezza.
Sostengono, infatti, gli Ermellini che – quando vi è una generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile – la scelta del dipendente da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera, dovendo rispettare le regole di correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.).
A tal fine, pertanto, l’utilizzazione dei criteri (carichi di famiglia ed anzianità di servizio) che l’art. 5, l. 223/91 ha previsto per la scelta dei lavoratori da licenziare nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo, più che un’applicazione analogica di un precetto normativo previsto per altra fattispecie, costituisce invece il modo per identificare “uno standard particolarmente idoneo a consentire al datore di lavoro di esercitare il suo, unilaterale, potere selettivo coerentemente con gli interessi del lavoratore e con quello aziendale“.
Ciò debitamente rilevato, la Corte, inoltre, precisa – così confermando un recente proprio orientamento (Cass. 25563/2017) – che diversa dall’ipotesi in esame è quella “in cui il licenziamento per motivo oggettivo non trova giustificazione nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, bensì nella soppressione dei posti di lavoro di personale adibito all’espletamento di un servizio per un appalto integralmente venuto meno, per cui è il nesso causale che necessariamente lega la ragione organizzativa e produttiva posta a fondamento del recesso con la posizione lavorativa non più necessaria ad identificare il soggetto destinatario del provvedimento espulsivo, senza necessità di fare ricorso ad ulteriori criteri selettivi“.
Se, quindi, in tale seconda ipotesi, vi è libertà di licenziare solo i lavoratori addetti all’appalto integralmente venuto meno, nelle altre ipotesi in cui sussista un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, sarà necessario individuare il lavoratore destinatario del provvedimento espulsivo solo all’esito dell’applicazione dei criteri oggettivi di cui al citato art. 5, l. 223/91, ovviamente con esclusione delle esigenze tecnico – produttive e organizzative ove vi sia una situazione di totale fungibilità tra i dipendenti.