30 Settembre 2016
Con la recente sentenza del 20 settembre 2016, n. 18409, la Suprema Corte è intervenuta sul delicato tema del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fornendo, anche per tale ipotesi, una chiara legittimazione dell’utilizzo di criteri di scelta improntati alle esigenze datoriali.
Come noto, infatti, la legge n. 223/1991, nel disciplinare le procedure di licenziamento collettivo (e cioè quelle avviate per motivi economico-organizzativi ed aventi ad oggetto almeno cinque unità nell’arco di 120 giorni e nello stesso territorio provinciale), ha stabilito che, all’esito del confronto sindacale, in caso di mancato accordo, il datore di lavoro possa procedere al licenziamento dei dipendenti applicando i criteri dei carichi di famiglia, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive.
Tale disposizione, tuttavia, non è direttamente applicabile ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, per i quali, pertanto, si è lungamente discusso in merito alla discrezionalità o meno dei criteri adottati dal datore di lavoro.
In tale contesto, la Suprema Corte ha più volte ritenuto che, pur in difetto di una specifica disciplina di legge, in caso di licenziamento dettato dalla mera “esigenza di ridurre il personale omogeneo e fungibile, il datore di lavoro deve scegliere il soggetto (o i soggetti) da licenziare sempre nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede”, i quali sono certamente rispettati qualora si faccia riferimento ai citati “criteri dei carichi di famiglia e dell’anzianità (…) non assumendo, invece, rilievo le esigenze tecnico – produttive e organizzative data la indicata situazione di totale fungibilità tra i dipendenti(…)” (Cass. 7046/2011).
Appare evidente, tuttavia, come una simile soluzione possa, nel concreto, rivelarsi troppo semplicistica, posto che il datore di lavoro, nell’esercizio del suo (costituzionalmente tutelato) potere gestionale potrebbe dover prendere in considerazione, nonostante la fungibilità delle mansioni, altri elementi di tipo organizzativo.
Orbene, tale osservazione è stata finalmente accolta dalla Suprema Corte che, mediante la citata sentenza n. 18409/2016, ha ammesso che i principi di correttezza e buona fede possano considerarsi rispettati – ad esempio – qualora la scelta del lavoratore da licenziare avvenga “sulla base dell’incidenza del diverso orario lavorativo prestato (a tempo parziale dalla lavoratrice licenziata e a tempo pieno dall’altra, nella sostanza elemento di infungibilità delle due prestazioni) sulla necessità aziendale di un dipendente a tempo pieno, a garanzia della copertura dell’intero orario di apertura degli uffici”.
Come sopra anticipato, pertanto, la sentenza in esame appare meritevole di evidenza in quanto – pur ponendosi nel solco della tradizionale opzione interpretativa – ha espressamente riconosciuto che i sopra citati principi di correttezza e buona fede sono rispettati anche qualora il datore di lavoro operi le proprie scelte tenendo conto di sue esigenze di tipo organizzativo, eventualmente anche a scapito dei carichi di famiglia o dell’anzianità aziendale dei lavoratori coinvolti.
Infine, per completezza, si segnala che la Cassazione, con sentenza n. 14021/2016, ha di recente chiarito che, in caso di licenziamento per g.m.o., la non applicazione di criteri di scelta improntati a correttezza e buona fede non comporta la reintegra del dipendente, ma unicamente il pagamento in suo favore di una indennità commisurata dal giudice di importo variabile da 12 a 24 mensilità.