22 Settembre 2015
Con sentenza del 3 giugno scorso, la Suprema Corte è tornata ad occuparsi dell’ipotesi del licenziamento illegittimo e tuttavia incolpevolmente disposto dal datore di lavoro e del conseguente risarcimento del danno.
Nella fattispecie, un istituto bancario – a seguito dell’accertata inidoneità alle mansioni assegnate di una propria dipendente, valutazione dalla medesima non contestata ed anzi condivisa – aveva licenziato la lavoratrice per giustificato motivo oggettivo.
Quest’ultima ricorreva al giudice del lavoro, rilevando l’esistenza di altre posizioni nelle quali avrebbe potuto essere collocata e per tale motivo chiedeva di essere reintegrata in servizio ed adibita a mansioni compatibili con il suo stato.
Il Tribunale disponeva una consulenza tecnica d’ufficio, che accertava – smentendo il giudizio di inidoneità sul quale si fondava il recesso – la piena idoneità della dipendente a svolgere le mansioni a cui era originariamente assegnata.
In ragione di quanto sopra, il giudice adito – nella vigenza dell’ art. 18 Statuto Lav. ante riforma – dichiarava illegittimo il licenziamento, ordinando la reintegra della ricorrente nel posto di lavoro precedentemente occupato e condannando l’Istituto bancario al risarcimento del danno commisurato a cinque mensilità di retribuzione.
La Corte d’Appello successivamente adita confermava la sentenza di primo grado, ed entrambe le parti proponevano ricorso per cassazione.
In particolare, la lavoratrice si doleva della misura del risarcimento, ritenendo spettarle, come indicato dall’art. 18, co. 4, Stat. Lav., l’intera retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegra.
Per quanto di maggiore interesse in questa sede, la Suprema Corte – nel confermare la pronuncia della Corte territoriale – affermava che la dichiarazione di invalidità del licenziamento ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav. non comporta automaticamente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno nella misura stabilità dal quarto comma, non potendosi escludere ogni rilevanza ai profili di dolo e colpa nel comportamento del recedente, se non nella misura minima delle cinque mensilità, da intendersi come una sorta di penale espressamente prevista dal legislatore.
Come ben noto, con la l. 92/12 l’art. 18 Stat. Lav. è stato profondamente modificato.
In particolare, per quanto di interesse, il comma 7 della norma in questione stabilisce che in caso di difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, il giudice applica la disciplina di cui al precedente quarto comma, vale a dire condanna il datore di lavoro alla reintegra del lavoratore e al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni medio tempore maturate, fino ad un massimo di 12 mensilità.
Appare evidente, quindi, che – per tali ipotesi – non vi è più il limite minimo delle cinque mensilità di risarcimento, che residuano viceversa per i soli casi di nullità del recesso, disciplinati dal comma 1.
Se così è, vigente il ricordato principio di diritto espresso dalla Suprema Corte in materia di rilevanza del dolo e/o della colpa nell’intimazione del licenziamento, si dovrebbe concludere nel senso che, a seguito della cd. Riforma Fornero, il recesso incolpevolmente operato sulla base di un giudizio di inidoneità espresso dal Medico Competente (e ancor più dalla commissione medica della Asl) – successivamente sconfessato in sede giudiziale – potrebbe non comportare alcun risarcimento del danno in capo al datore di lavoro, ferma restando ovviamente la reintegra del dipendente.
Tale soluzione, del resto, appare del tutto coerente con il ragionamento del Supremo Collegio nella sentenza in argomento, in cui gli Ermellini affermano in modo chiaro come la questione relativa alla responsabilità risarcitoria del licenziamento debba essere regolata secondo le ordinarie regole civilistiche in tema di risarcimento del danno conseguente ad inadempimento delle obbligazioni, prima tra tutte quella fissata dall’art. 1218 c.c., secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui fornisca la prova che l’inadempimento consegua ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile.
Ferme le suesposte considerazioni, appare inutile evidenziare che la materia, anche in relazione alle intervenute modifiche legislative, resta molto delicata ed incerta, di talché la prudenza è d’obbligo in casi simili.