31 Maggio 2019
Con una recente ordinanza (n. 4804/2019), la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa, irrogato da un’azienda ad un proprio dipendente rinviato a giudizio per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.
Il Tribunale, in primo grado, aveva dichiarato illegittimo il suddetto recesso (e disposto la reintegra in servizio del lavoratore) fondando il proprio convincimento sulla circostanza per cui la società avesse contestato al lavoratore unicamente il dato processuale del rinvio a giudizio in sede penale (come appreso da pubblicazioni giornalistiche) senza effettuare alcuna indagine interna, omettendo così di individuare nella sua materialità il fatto o i fatti addebitati e senza enunciare i profili oggettivi e soggettivi tali da giustificare la massima sanzione espulsiva.
La Corte d’Appello di Venezia rigettava il gravame proposto avverso il provvedimento emesso dal Tribunale confermandone di fatto le motivazioni.
Con la sentenza in commento, i giudici di legittimità, ribaltando l’esito dei precedenti giudizi, hanno accolto il ricorso presentato dall’azienda, dichiarando legittimo il licenziamento irrogato.
Sulla scia di un orientamento consolidato, la Suprema Corte ha affrontato anzitutto il tema della genericità della contestazione, ritenendo ammissibile – in quanto non lesiva del diritto di difesa – “la contestazione disciplinare formulata per relationem mediante il richiamo agli atti del procedimento penale, del quale il lavoratore sia già stato portato a conoscenza, posto che il rinvio è idoneo a garantire il rispetto del contraddittorio e del principio di correttezza (Cass. nr. 10662 del 2014; Cass. nr. 23269 del 2017; Cass. nr. 25485 del 2017; Cass. nr. 6894 del 2018)”.
Nel caso in esame, infatti, il datore di lavoro non ha contestato sic et sempliciter la pendenza del procedimento penale ma, piuttosto, i fatti materiali che di quel procedimento ne costituivano l’oggetto, rappresentati dalla detenzione e spaccio di elevata quantità di sostanze stupefacenti.
Tali fatti, come giustamente argomentato dagli Ermellini, sono – a prescindere dai rilievi di natura penale – riprovevoli sotto l’aspetto sociale e, pertanto, idonei a compromettere il vincolo fiduciario, senza che a tal fine rilevi la circostanza per cui si tratti di una condotta extra lavorativa destinata a riverberarsi solo potenzialmente sul rapporto di lavoro.
Infatti, precisa la Corte, la “detenzione e spaccio di elevata quantità di sostanze stupefacenti, con cadenza regolare (circa una volta ogni tre/quattro mesi) dal 2006 (quantitativi pari, di volta in volta, a 200/300 gr. di hashish e, nel giugno 2010, anche di gr. 20 di marijuana) è sussumibile, in astratto, nell’ambito della nozione legale di giusta causa ai sensi dell’art. 2119 cod.civ., avendo un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto di lavoro”.