20 Ottobre 2017
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 25 settembre 2017 n. 22295, ha emesso una interessante pronunzia volta a chiarire una circostanza che spesso si verifica durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, ovvero la mancata comunicazione del cambio di residenza da parte del lavoratore.
Di regola i contratti collettivi prevedono l’obbligo dei dipendenti di comunicare la variazione dell’indirizzo di residenza; in particolare l’art. 12 del ccnl per il personale non medico delle case di cura private, nonché del ccnl delle RSA e Centri di Riabilitazione, prescrive testualmente che “in costanza di rapporto il lavoratore è altresì tenuto a certificare tempestivamente ogni successiva variazione di residenza e/o domicilio”.
Tale adempimento è di fondamentale importanza soprattutto ai fini di certificare la corretta notifica della lettera di licenziamento, la quale costituisce un atto c.d. “recettizio”, ovvero che produce effetti nel momento in cui giunge a conoscenza del destinatario ovvero (ai sensi dell’art. 1335 c.c.) si presume portato a sua conoscenza se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia.
La pronunzia degli Ermellini trova spunto da una vicenda relativa ad un licenziamento che, nel corso del giudizio di primo grado, era stato ritenuto illegittimo dal Giudice del Lavoro di Nola perchè comunicato oltre il termine decadenziale di 6 giorni dal ricevimento delle giustificazioni previsto dal contratto collettivo di settore.
Per la precisione, il licenziamento considerato tardivo è stato quello comunicato con una seconda lettera all’indirizzo di domicilio della dipendente, mentre la prima comunicazione di licenziamento (tempestivamente indirizzata all’indirizzo di residenza) era stata ritenuta irrilevante dal giudice in quanto non pervenuta al domicilio della lavoratrice, la cui variazione doveva – a parere del giudicante – ritenersi acquisita dal datore di lavoro a seguito della comunicazione che la stessa lavoratrice aveva effettuato al fine di esplicitare la propria volontà di mantenere in azienda il trattamento di fine rapporto.
Posto che, in tale lettera, era riportato un indirizzo del mittente diverso da quello di residenza, il giudice di merito ha considerato tale indicazione (seppure non accompagnata da alcuna specifica volontà della lavoratrice in tal senso) sufficiente ad evidenziare la modifica dell’indirizzo di quest’ultima.
La Corte d’Appello di Napoli ha avvalorato tale interpretazione.
La Corte di Cassazione ha, invece, accolto il ricorso della società datrice di lavoro la quale aveva sostenuto, a propria difesa, che la lettera della dipendente con cui la stessa aveva espresso la propria volontà di mantenere il TFR in azienda rispondeva ad una finalità del tutto differente da quella di comunicare formalmente il cambio di residenza (tant’è che alcuna indicazione era contenuta in tal senso).
I giudici di legittimità, aderendo a tale ragionamento, hanno affermato il principio per cui la lavoratrice – in adempimento dell’obbligo imposto dal ccnl (improntato all’obbligo di correttezza e buona fede che regola il contratto di lavoro) – avrebbe dovuto formalmente comunicare le successive variazioni di residenza o domicilio in modo da rendere tempestivamente edotto il datore di lavoro dell’indirizzo ove la stessa poteva ritenersi reperibile.
In virtù di tali considerazioni, gli Ermellini hanno dunque ritenuto che Corte d’Appello di Napoli avesse errato nell’attribuire alla lettera concernente la destinazione del TFR (priva di alcun crisma di formalità) il valore di prova dell’effettiva comunicazione di cambio di domicilio.
Tale pronunzia si inserisce nel solco di un precedente orientamento della Cassazione (che, evidentemente, in alcuni casi continua ad essere disatteso dai giudici di merito) in virtù del quale «… in caso di regolare invio della raccomandata presso il luogo dove secondo legge la stessa doveva essere recapitata… ogni conseguenza negativa è imputabile unicamente al ricorrente [ovvero il lavoratore n.d.r.] che avrebbe dovuto predisporre, secondo un principio di buona fede e di ordinaria diligenza, i meccanismi idonei a rendere a lui conoscibile ogni comunicazione datoriale» (cfr Cass. sentenza del 18 novembre 2014, n. 25824).