2 Marzo 2018
La Corte di Giustizia Europea, con la recente sentenza del 22 febbraio 2018, offre lo spunto per alcune considerazioni critiche sulla vigente normativa italiana (art. 54 del d.lgs. 151/2001) che – salvo il caso della definitiva chiusura dell’azienda – vieta il licenziamento della lavoratrice madre dal momento del concepimento e sino al compimento di un anno di vita del bambino, anche qualora il licenziamento stesso sia intimato nell’ambito di una complessa procedura di licenziamento collettivo e, quindi, previo confronto con le organizzazioni sindacali, anche in sede amministrativa.
Tale disposizione, pur comprendendo le ragioni che la motivano, genera non poche distorsioni, in quanto le lavoratrici in questione, sulla base di un mero dato temporale, devono essere esonerate dal licenziamento anche qualora, sulla base dei rigidi criteri previsti dalla l. 223/1991 (carichi di famiglia, anzianità aziendale ed esigenze tecnico produttive), dovrebbero esserne invece destinatarie.
Ciò, evidentemente, comporta che altri lavoratori o lavoratrici siano licenziati al posto della dipendente in stato di gravidanza, anche qualora (magari) gli stessi abbiano più familiari a carico e, quindi, una situazione di maggiore debolezza sul piano sociale.
Tuttavia, nonostante le suddette criticità siano ben note al legislatore ed agli operatori del settore, tale divieto, previsto già dalla l. 1204/1971, è stato confermato anche dal d.lgs. 151/2001 ed, anzi, è stato reso maggiormente rigido, in quanto – a differenza del previgente regime – non sono più ammesse deroghe neanche nel caso di cessazione delle attività del reparto/ramo cui la dipendente è adibita e nemmeno laddove non ci siano possibilità di ricollocazione (cfr. Cass. 22720/2017).
Tale impostazione, oltre ad essere motivata da ragioni ideologiche, è stata spesso giustificata con il riferimento ad una (presunta) necessità di adeguarsi alla normativa comunitaria.
Orbene, tale argomentazione è stata specificamente disattesa dalla Corte di Giustizia che, con sentenza sopra citata, ha chiarito che la Direttiva n. 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, pur lasciando una ampia discrezionalità ai singoli stati membri (che possono garantire livelli di tutela ulteriori), non osta ad una normativa nazionale che consenta il licenziamento di una lavoratrice gestante a causa di un licenziamento collettivo, né richiede che, a tal fine, vengano dedotti motivi diversi da quelli che giustificano l’avvio della procedura collettiva, a condizione che (come normalmente avviene) siano indicati i criteri oggettivi adottati per designare i lavoratori da licenziare.
Tale decisione risolve, in modo deciso, molti dubbi sussistenti in materia e, pertanto, si auspica che il legislatore ne tenga debito conto, al fine di evitare le (altrimenti inevitabili) distorsioni, spesso a danno di altri lavoratori che versano in situazioni parimenti degne di tutela.