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L’esercizio prevalente delle mansioni equivalenti esclude il danno da dequalificazione

26 Aprile 2013

Con la sentenza del 21 febbraio 2013, n. 4301, la Corte di Cassazione è ritornata a pronunciarsi in ordine al dibattuto tema del risarcimento del danno per adibizione del lavoratore a mansioni inferiori.

Come noto l’art. 2103 c.c. tutela la professionalità del prestatore di lavoro nonché il diritto a prestare l’attività lavorativa per cui è stato assunto o ha successivamente svolto; pertanto, l’assegnazione del lavoratore subordinato a mansioni inferiori alla sua qualifica, attuata unilateralmente dal datore di lavoro, costituisce violazione dell’inderogabile disposto dall’art. 2103, 2° comma, c.c., il quale afferma la nullità dei patti contrari, sia ad opera delle parti individuali sia ad opera delle parti collettive e comporta la dequalificazione professionale del lavoratore.
Pertanto, in caso di accertata dequalificazione professionale (con onere della prova a carico del lavoratore, sul punto, cfr. Cass. S.U., n. 6572/2006), il datore di lavoro sarà condannato al risarcimento del danno.
Ciò, tuttavia, non esclude il diritto del datore di lavoro di effettuare mutamenti nelle mansioni del dipendente (cd. jus variandi).

Lo jus variandi, tuttavia, incontra il limite della duplice esigenza della garanzia del livello retributivo già raggiunto e del rispetto dell’equivalenza delle nuove mansioni a quelle precedentemente svolte dal lavoratore, al fine di salvaguardare il livello professionale e le conseguenti prospettive di miglioramento (così Cass. 9 marzo 2004, n. 4773) ed a condizione che risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare ed anzi di arricchire il patrimonio professionale acquisito in una prospettiva dinamica di valorizzazione del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.
Ciò premesso, nel caso di specie, la Corte d’Appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva l’istanza del ricorrente, proposta nei confronti del Comune di cui era dipendente (con inquadramento B1 e posizione economica C2) avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità di un ordine di servizio, con cui era stata disposta la sua assegnazione a mansioni inferiori a quelle dell’inquadramento rivestito ed era stata chiesta la condanna della resistente al pagamento di tutti i danni professionali, morali ed esistenziali subiti.
Avverso la suddetta sentenza, il dipendente ricorreva in Cassazione, sulla base di cinque motivi.

La Corte di Cassazione, nel precisare che i motivi prospettati dal ricorrente implicavano un accertamento dei fatti nel merito (inammissibile nell’ambito del giudizio di legittimità) afferma che il ragionamento svolto dalla Corte di merito non risulta affetto da vizi logici, in quanto è legittima l’adibizione a mansioni inferiori del dipendente per esigenze di servizio, allorquando è assicurato in modo prevalente ed assorbente l’espletamento di quelle attività concernenti la qualifica di appartenenza.
In realtà, il suddetto principio era già stato espresso dalla giurisprudenza della Suprema Corte nelle sentenze del 2 maggio 2003 n. 6714, 10 giugno 2004 n. 11045 e del 7 agosto 2008 n. 17774.
Ma la sentenza del 21 febbraio 2013, aggiunge un’ulteriore importante specificazione in ordine al concetto di prevalenza, ossia che lo svolgimento di mansioni inferiori (per esigenze organizzative) che comportino “un impiego di energie lavorative di breve durata, non incidono sullo svolgimento in modo prevalente ed assorbente delle mansioni di appartenenza”.
Pertanto, allorquando si intenda adibire i lavoratori a mansioni diverse rispetto a quelle svolte sino a quel momento – per evitare di incorrere (in caso di eventuali giudizi) in condanne risarcitorie – sarà opportuno assegnare loro a mansioni equivalenti.

Ad ogni modo, in osservanza al principio espresso dalla sentenza innanzi richiamata, allorquando tra le mansioni di nuova assegnazione siano ricomprese anche attività non in linea con il profilo professionale acquisito dal dipendente, si dovrà aver cura che queste non impegnino il dipendente per la maggior parte del suo tempo lavorativo giornaliero, pena, sempre, il rischio per il datore di lavoro di una condanna di natura risarcitoria.

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