31 Ottobre 2013
Sovente i datori di lavoro si interrogano circa la legittimità dell’utilizzo di informazioni relative ai propri dipendenti, acquisite nel corso di indagini finalizzate all’accertamento di condotte inadempienti.
In tale materia, le perplessità maggiori sono legate alla cd. legge sulla privacy da molti, erroneamente, ritenuta un ostacolo insormontabile al legittimo uso dei dati personali del lavoratore acquisiti dal datore di lavoro.
A far chiarezza sulla – invero complessa materia – è recentemente intervenuta la Suprema Corte (Cass. 17204 dell’11 luglio 2013), che si è occupata di una questione nella quale è intervenuto anche il Garante per la privacy.
Nella fattispecie, un vicedirettore di banca veniva licenziato per giusta causa, a seguito di un’indagine interna promossa dall’istituto bancario, che aveva evidenziato movimenti abnormi di denaro su conti intestati al dipendente ed alla moglie del medesimo, nonché varie altre anomalie ed irregolarità allo stesso attribuibili.
Il lavoratore ricorreva al Garante, contestando, tra l’altro, la legittimità dell’acquisizione dei dati in questione – da ritenersi riservati – e la conseguente inutilizzabilità degli stessi.
Il Garante, tuttavia, rilevava la liceità del trattamento operato dal datore di lavoro, in quanto pertinente e non eccedente rispetto alle finalità per le quali i dati erano stati raccolti e successivamente trattati, nonché in quanto dette informazioni erano state utilizzate dalla banca nell’esercizio del potere disciplinare proprio del datore di lavoro, ben potendo quest’ultimo procedere a proprie indagini senza attendere l’esito di eventuali accertamenti in sede penale.
Rilevava, inoltre, il Garante che il trattamento dei dati in questione doveva ritenersi legittimo anche in considerazione del fatto che esso era stato operato dalla banca per far valere i propri diritti ai fini della loro tutela in sede giudiziaria, acquisendo il materiale probatorio necessario, ipotesi per la quale non è necessario il consenso dell’interessato al trattamento dei dati, purché beninteso essi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, come espressamente previsto dall’art. 24, co. 1, lett. f), d. lgs. 196/03.
Dopo essersi visto rigettare il ricorso avverso il provvedimento del Garante, il dipendente adiva la Corte di Cassazione, ribadendo le proprie doglianze in ordine alla illegittimità della condotta datoriale.
I Supremi Giudici, tuttavia, rigettano nuovamente le argomentazioni del lavoratore, evidenziando la correttezza dell’operato della banca, conforme alla norma da ultimo citata, e richiamando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ritiene derogabile la disciplina dettata a tutela dell’interesse alla riservatezza dei dati personali quando il relativo trattamento sia esercitato per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante e nei limiti in cui ciò sia necessario per la tutela di quest’ultimo interesse.
Sul punto, di particolare interesse la pronuncia con la quale gli Ermellini hanno affermato che “la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza.” (Cass. 3358/09).
I datori di lavoro possono essere più tranquilli. E’ legittimo l’uso in giudizio dei dati personali del dipendente, come pure l’uso dei dati medesimi ai fini disciplinari.