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Legittimo il licenziamento per g.m.o. anche se finalizzato ad incrementare i profitti

20 Gennaio 2017

Con sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016, la Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla legittimità dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, precisando (una volta per tutte?) che l’art. 3 della l. n. 604/66 non prescrive la necessità di “situazioni sfavorevoli” ovvero di “spese notevoli di carattere straordinario” cui sia necessario fare fronte ai fini della legittimità del provvedimento.

La sentenza in commento trae spunto dall’ennesima valutazione, da parte dei giudici del merito, delle ragioni economiche sottese al licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nella fattispecie, in particolare, poiché il datore di lavoro non aveva dimostrato l’effettiva esigenza di dover fare fronte a situazioni sfavorevoli e non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, il licenziamento era stato ritenuto illegittimo, in quanto “motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto“.
A ribaltare una simile impostazione è intervenuta la Cassazione, evidenziando come la norma, in realtà, si limiti a prescrivere, ai fini della legittimità, che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, tra le quali non possono essere aprioristicamente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d’impresa.

Secondo gli Ermellini, ai fini della legittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo “non è quindi necessitato che si debba fronteggiare un andamento economico negativo o spese straordinarie e non appare pertanto immeritevole di considerazione l’obiettivo aziendale di salvaguardare la competitività nel settore nel quale si svolge l’attività dell’impresa attraverso le modalità, e quindi la combinazione dei fattori della produzione, ritenute più opportune dal soggetto che ne assume la responsabilità anche in termini di rischio e di conseguenze patrimoniali pregiudizievoli”.
Per la Suprema Corte, la diversa interpretazione non troverebbe, infatti, riscontro all’interno del dettato normativo, ma trarrebbe origine dalla tesi dottrinale della extrema ratio, secondo cui la scelta che legittima l’uso del licenziamento dovrebbe essere sempre “socialmente opportuna”.

Tuttavia, una simile interpretazione (che impone la tutela del posto di lavoro ad ogni costo) non appare coerente con l’impianto costituzionale, il quale prevede pur sempre che l’iniziativa economica “è libera” ( art. 41 Cost. , comma 1) e che eventuali limiti alla stessa possano essere stabiliti solo dal legislatore.
Dunque, “Non spetta al giudice, in presenza di una formula quale quella dettata dall’art. 3 più volte citato, surrogarsi nella scelta, con riferimento alla singola impugnativa di licenziamento, tenuto conto altresì della inevitabile mancanza di strumenti conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la migliore opzione per l’impresa e per la collettività”.
Si tratta, dunque, di una pronuncia con la quale la Suprema Corte (nell’ambito del ruolo di custode della corretta interpretazione della legge che gli è proprio) intende fornire ai giudici del merito precise linee guida sull’applicazione del dettato dell’art. 3 della l. n. 604/66, evidenziando tutta la fragilità (rectius, non rispondenza al dettato normativo) delle interpretazioni che invece ritengono essenziale che il licenziamento trovi la sua giustificazione nella necessità dell’imprenditore di far fronte a situazioni sfavorevoli (neppure contingenti).

Il principio di diritto contenuto nella sentenza in commento (nonostante il clamore mediatico suscitato, forse a ragione delle esplicite motivazioni riportate in sentenza) non introduce, invero, elementi di novità nel nostro ordinamento: sebbene molti giudici del merito continuassero a disattendere tale orientamento, nel recente passato la Cassazione aveva più volte evidenziato l’infondatezza della tesi che sostiene il necessario ricollegarsi del giustificato motivo di recesso ad uno stato di crisi o comunque ad oggettive esigenze di riorganizzazione aziendale, attesa l’operatività del principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali, che assegna al giudice un mero potere di verifica della corrispondenza del provvedimento espulsivo rispetto all’esigenza organizzativa invocata, qualunque sia la finalità perseguita, fosse anche quella della maggiore redditività (cfr. Cass. 20 novembre 2015, n. 23791; ma anche Cass. 12 agosto 2016, n. 17091).

Di conseguenza, ai fini della legittimità del licenziamento è necessario e sufficiente che il provvedimento sia sorretto da tutti i presupposti richiesti dalla legge e cioè:
a) dall’effettività delle ragioni di ordine organizzativo addotte a giustificazione del licenziamento;
b) dall’effettiva soppressione del posto;
c) dall’esistenza del nesso causale tra tali ragioni ed il venir meno della posizione lavorativa.
Accertata l’effettività della riorganizzazione, ogni ulteriore valutazione in ordine alla legittimità della scelta datoriale dovrebbe dunque essere superflua.
Resta ora da capire se la finalità del “maggior profitto” (o, meglio del maggior risparmio) ritenuta dalla Cassazione idonea a supportare il recesso dal rapporto di lavoro possa essere utilizzata anche quale (legittimo) criterio di scelta nell’individuazione del lavoratore da licenziare tra una pluralità di dipendenti fungibili.
La sentenza in commento non si spinge, infatti, fino a questo punto; non è escluso, tuttavia, che in futuro si possa giungere ad un simile approdo portando alle estreme conseguenze il principio di diritto fornito dalla Suprema Corte.

 

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