3 Novembre 2017
Con la recentissima sentenza n. 25485 del 26 ottobre 2017 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in ordine alla legittimità del licenziamento fondato sugli atti del procedimento penale dai quali è emerso la responsabilità disciplinare del lavoratore.
Il Supremo Collegio, dando continuità all’orientamento giurisprudenziale pregresso consolidatosi in fattispecie analoghe, ha ritenuto che “venuta meno la c.d. pregiudiziale penale” il datore di lavoro è libero di valutare autonomamente – ai fini della contestazione – gli atti del procedimento penale, senza necessità di una ulteriore ed autonoma istruttoria, e di avvalersi dei medesimi atti, in sede di impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti.
La Corte precisa che l’utilizzabilità di tali atti prescinde dalla formazione del giudicato in sede giudiziaria, poiché il giudice del lavoro può fondare il suo convincimento sugli atti assunti nel corso delle indagini preliminari, anche qualora sia mancato il vaglio critico del dibattimento, posto che la parte può sempre contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti acquisiti in tale modo in sede penale.
Il suddetto orientamento giurisprudenziale si pone in linea con le precedenti pronunce della Suprema Corte di Cassazione, nonché con quelle dei giudici di merito, tra le quali vi è la recente sentenza della Corte di Appello di Bari del 2 maggio 2017 n. 1190, la quale ha dichiarato legittimo un licenziamento fondato dalla conoscenza di fatti idonei a ledere il vincolo fiduciario fondato sulle intercettazioni telefoniche trascritte in seno ad una ordinanza cautelare, affermando espressamente che “E’ parimenti consolidato il principio alla stregua del quale le “intercettazioni telefoniche o ambientali, effettuate in un procedimento penale, sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della L. n. 300 del 1970, purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali” – cosa di cui qui non si dubita – “non ostandovi i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p., riferibili al solo procedimento penale, in cui si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale”.
Il suddetto orientamento, ormai consolidato, si pone in linea, a ben vedere, con le argomentazioni (così come riportate dagli organi di stampa) della recente pronuncia del Tribunale di Chieti dello scorso settembre 2017, la quale – aderendo alla non condivisibile impostazione giurisprudenziale di matrice formalista per cui un fatto contestato tardivamente equivale essenzialmente ad un “fatto insussistente” – ha disposto la reintegra di un dipendente di Poste Italiane, licenziato solo all’esito del procedimento penale in cui era coinvolto.
Secondo le motivazioni del Tribunale di Chieti, come diffuse dai mass media, la contestazione formale doveva considerarsi irrimediabilmente tardiva in quanto la società poteva disporre già quattro anni prima del licenziamento di tutti gli elementi sufficienti per procedere ad una tempestiva contestazione disciplinare, con la conseguenza che la scelta di attendere prudenzialmente la sentenza penale di condanna (o comunque l’esito del procedimento penale nel frattempo avviato) non poteva in alcun modo valere a scriminare il ritardo della società.
Tale pronuncia di merito, sebbene non condivisibile nelle conclusioni atteso che non aderisce all’orientamento giurisprudenziale che ritiene la tardiva contestazione disciplinare in alcun modo riconducibile all’insussistenza del fatto contestato (Cass. 6 novembre 2014, n. 23669, Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540), conferma non solo la facoltà, ma anche l’opportunità (per non incorrere in eccezioni di tardività della contestazione) di avvalersi degli atti del procedimento penale ancora non concluso, dai quali sia possibile evincere i fatti di rilievo disciplinare, per fondare la contestazione nei confronti del lavoratore coinvolto nello stesso.