18 Dicembre 2015
Con sentenza del 16 dicembre 2015 il Tribunale di Arezzo, chiamato a pronunciarsi sull’incremento orario stabilito dal ccnl Aris per RSA e Centri di Riabilitazione a parità di retribuzione, ha confermato la legittimità della citata previsione contrattuale, evidenziando come “nel momento in cui le parti trattanti prevedano un diverso assetto economico (anche peggiorativo in alcuni aspetti, come ad esempio la misura della retribuzione oraria), ciò pongano in essere al fine di tutelare nel modo più idoneo gli associati tenendo conto di una complessiva valutazione che potrebbe coinvolgere anche situazioni diverse, quali il mantenimento occupazionale, o la salvaguardia del posto di lavoro, le quali rivestono un’importanza collettivamente superiore rispetto alla singola posizione del dipendente”.
Cogliendo in pieno lo spirito (e la finalità) del ccnl del 2012, il Giudice aretino ha rigettato le domande di un gruppo di lavoratori di un Centro di riabilitazione associato all’Aris, i quali avevano agito per ottenere la rideterminazione del proprio trattamento economico (rectius, del superminimo non riassorbibile previsto dall’art. 56 del ccnl) in ragione dell’incremento dell’orario di lavoro (da 36 a 38 ore settimanali) previsto dal citato ccnl.
Secondo i ricorrenti, infatti, in applicazione del principio di irriducibilità della retribuzione – sancito dall’art. 2103 c.c. – alla contrattazione collettiva sarebbe preclusa la possibilità di introdurre un incremento orario senza procedere contestualmente ad un proporzionale incremento del trattamento retributivo dei dipendenti, in quanto ciò determinerebbe altrimenti una riduzione della paga oraria dei lavoratori (e, dunque, un sostanziale peggioramento del loro trattamento economico).
Pertanto, a giudizio dei lavoratori, al fine di garantire il medesimo trattamento retributivo goduto in precedenza o l’art. 56 del ccnl doveva essere interpretato nel senso di introdurre un superminimo pari alla differenza tra la paga oraria precedentemente percepita e la nuova paga oraria (inevitabilmente inferiore, in quanto determinata dividendo la retribuzione giornaliera per 6,33 e non più per 6) o la citata disposizione contrattuale (e con essa anche l’art. 18 del ccnl che ha stabilito l’incremento orario in parola) avrebbe dovuto essere dichiarata illegittima e, quindi, disapplicata.
Sul punto, il Tribunale di Arezzo ha evidenziato innanzitutto come il dettato dell’art. 56 sia “chiaro ed inequivoco” nello stabilire che il superminimo debba essere ricavato attraverso la differenza tra la paga giornaliera (e non oraria) precedentemente goduta e quella prevista dal nuovo ccnl.
Inoltre, richiamando il consolidato orientamento della Cassazione, il giudice ha rammentato come “il principio di irriducibilità attiene esclusivamente al singolo rapporto individuale, mentre laddove sia conseguente ad una successione di contratti collettivi … non possa ritenersi definitivamente acquisito al patrimonio del lavoratore un diritto nato da una norma collettiva che ormai non esiste più, perché caducata o sostituita da una successiva contrattazione collettiva”.
La sentenza in commento ha altresì chiarito che nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi, le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche in senso sfavorevole al lavoratore, con il solo limite dei diritti quesiti, tra i quali non rientrano “i profili retributivi indicati in un contratto collettivo” che “non possono considerarsi diritti acquisiti dei dipendenti”.
Sebbene le argomentazioni appena richiamate non rappresentino certamente una novità nel panorama giurisprudenziale, la pronuncia in esame ha il pregio di aver riepilogato in maniera logica e puntuale la disciplina applicabile in caso di successione tra contratti collettivi, ribadendo il principio (che sembrava aver perso vigore dopo le note vicende dei contratti collettivi non firmati dalla CGIL) per cui il contratto collettivo, avendo come funzione la tutela degli interessi della collettività dei lavoratori (anche a discapito di quelli dei singoli), possa legittimamente prevedere condizioni retributive deteriori rispetto al passato, al fine di preservare gli assetti occupazionali in periodi di crisi.
Ciò con buona pace di tutti.